«Che poi a chiamarla barca ci vuole un bel coraggio / stare in tre seduti in mezzo metro di spazio/ e come me altri duecento tutti intenti a pregare/ e io vorrei soltanto alzarmi e palleggiare». Mentre le onde del mare si fanno sempre più minacciose, un bambino di 7 anni che sogna di fare il calciatore cerca di resistere alla paura, ma alla fine cede, «non ho forza, chiudo gli occhi e non so neanche nuotare». Ha fatto piangere la giuria di Sarà Sanremo di Rai 1, che lo ha promosso all’Ariston con la sua Stiamo tutti bene, ed è pronto a dare un cazzotto nello stomaco al grande pubblico del Festival (6-10 febbraio) il cantautore Mirkoeilcane, alias Mirko Mancini, 31 anni da Roma. Sfiderà gli altri 8 concorrenti della categoria Nuove Proposte del Festival con un commovente e graffiante brano narrato alla Faletti con echi di Samuele Bersani su un tappeto sonoro cinematografico, ma assolutamente originale, che racconta il dramma di un viaggio della morte visto con gli occhi ingenui di un bambino. «Nasce da un racconto vero che ho sentito da un ragazzo africano incontrato per caso all’uscita da un locale. Mi aveva colpito come mi raccontasse cose di una estrema atrocità e violenza, il suo viaggio in mare in condizioni disumane, ma con il sorriso e una allegria che mi hanno fatto scattare scintilla» ci spiega Mirko mentre sta provando gli archi con il maestro Fio Zanotti che lo dirigerà al Festival sul brano prodotto da Steve Lyon. Ne è nato di getto un brano fuori da ogni retorica «con cui spero di far riflettere anche chi non ha mai pensato a una situazione che nessuno può permettersi di ignorare: in mare c’è gente che muore». La paura di essere banale nell’affrontare un tema troppo spesso abusato, viene superata dal cantautore mettendosi nei panni di un bambino. «È stato un viaggio con me stesso, sono ritornato bambino io per immaginare queste cose in prima persona. Non è una canzone politica, non ci so- no schieramenti, è la cronaca di un viaggio ».
Un brano anche musicalmente atipico per gli standard festivalieri, che Mirko non si aspettava assolutamente potesse essere ammesso all’Ariston, ci spiega tradendo un pizzico di emozione negli occhi azzurri da gattone romano. «Sanremo è un rischio per uno come me abituato a scrivere canzoni ironiche e polemiche sulla società. Sono felice di andarci ma a modo io: quando mi rivedrò fra 30 anni almeno non mi metterò le mani in faccia». La canzone farà parte del nuovo album dedicato a tematiche sociali e ai rapporti affettivi, espressi con tocco ironico da Mirkoelcane che ha avviato nel 2016 la carriera da solista dopo aver lavorato per altri artisti lavorando come chitarrista in studio sia su dischi sia per spot e sigle tv, e componendo diverse colonne sonore fra cui quella del film I peggiori di Vincenzo Alfieri. Nello stesso anno il giovane cantautore vince una sfilza di premi di qualità dal Premio Bindi al premio Incanto sino all’ultimo premio Musicultura per il brano Per fortuna che critica l’eccessivo uso delle tecnologie. Sempre l’estate scorsa si fa conoscere con un divertente brano sulle smanie per la villeggiatura Epurestestate , che finirà nel nuovo album. Non male per uno studente dell’istituto tecnico col pallino della chitarra, perfezionata al Saint Louis College of Music di Roma («volevo diventare il più grande chitarrista del mondo» sorride), figlio della maestra Anna e dell’autista di autobus turistici Umberto, che insieme alla sorella Jennifer e all’adorata nonna Maria costituiscono il suo mondo degli affetti. «Una bella famiglia unita, sono stato molto fortunato» ammette Mirko che però nemmeno a loro ha svelato il perché del suo nome d’arte Mirkoeilcane: «È un segreto».
Ma se la musica del cuore è quella dei Beatles e di Jeff Beck, le parole fondamentali per la sua formazione cantautorale, oltre a quelle di grandi come Francesco De Gregori e Ivano Fossati, sono quelle della scuola romana di Max Gazzé, Daniele Silvestri e Niccolò Fabi. E proprio alla sua Roma nel prossimo album, dedicherà un brano in dialetto, Non t’ho mai vista Roma da qui. D’altronde nel suo omonimo album d’esordio c’è una certa sfiducia, come scrive nel libretto, per la città in cui è nato che definisce «presuntuosa» e per la sua Nazione che ringrazia «per la superficialità e le inesistenti prospettive». «Nell’altro disco ero molto arrabbiato, era un momento in cui mi era crollato tutto addosso. Nel nuovo album sono più cosciente » aggiunge raccontando che «nelle canzoni che ho scritto sinora sono solito prendermela con tutti, ma a fin di bene, cerco di proporre delle soluzioni». C’è quindi una nuova via per il cantautorato italiano oggi? «La mia l’ho presa come una missione, riuscire a convincere le persone ad ascoltare musica non impacchettata – afferma appassionato –. È evidente che c’è una tipologia di musica nei supermercati e nelle radio che è commerciale, e io che sono amante dei cantautori e delle parole, di arte ne vedo poca ».
La parola, quella fatta di poesia e anima, Mirko Mancini la scopre nell’adolescenza. «Ero piccolo, avendo pochissima memoria ero solito scrivermi quello che mi succedeva. Il mio diario da adolescente a un certo punto ha cominciato a cambiare forma: la prima canzone è nata da una forte passione per la lettura e la scrittura». Passione che lo spingeva a passare interi pomeriggi a frugare negli scaffali di casa e a leggere i grandi classici italiani e stranieri, passando da Bukowski a Stefano Benni. «Il libro che mi ha cambiato la vita è L’uccello che girava le viti del mondo dello scrittore giapponese Haruki Murakami – spiega Mirkoeilcane –. Mi ha scosso. Ho capito la forza che posso assumere le parole inserite in un certo contesto. La mia voglia di denunciare? Occorre un minimo di sensibilità altrimenti non si è mai scossi da niente. Parlo spesso della superficialità delle persone perché ci rimango male. La sindrome di Peter Pan non mi piace».