«Non ho più desideri. A 71 anni, dopo aver lavorato con Strehler, Berio, Vangelis, ciò che ho dato ho dato». Così, dopo l’addio ai tour, Milva fa calare il sipario su tutta la sua attività. A un passo dal 50° di carriera (esordì nel 1961), dopo aver attraversato musica e teatro come pochi, lasciando solo un piccolo spiraglio al ripensamento. «Magari terrò ancora qualche concerto, ma se sul palco non sarò da sola». Milva dà l’addio alle scene presentando un ultimo disco,
Non conosco nessun Patrizio!, dieci canzoni di Franco Battiato (compreso l’inedito del titolo) prodotte ed arrangiate da Battiato stesso: in una conferenza stampa velata di malinconia come l’album, un cd in cui la voce pulita e rispettosa di Milva dà diverse, struggenti, conferme della sua classe. Ma il dado era già tratto, se il disco (uscita il 28) nasce proprio (orgogliosamente) come commiato.«Dopo il cd del 2007 con Faletti ho rifiutato di reincidere vecchie hit e ho cercato Battiato. Mi sono detta che era il modo migliore per chiudere. Oggi scrive canzoni molto più complesse di quando già lavorammo insieme (nell’82 per
Alexander platz, e nell’89 per
Svegliando l’amante che dorme, nda). E quando mi ha detto di sì, ho iniziato a studiarne i dischi». Così che l’album contiene cose già incise nell’89, classici e pure due pezzi del Battiato d’oggi,
I giorni della monotonia ed
Io chi sono?: con
Segnali di vita e
Una storia inventata fra i migliori episodi del disco.Questo reincontro ha sorpreso Battiato per primo. «Le mie cose recenti non sono musica leggera, e ho dovuto spingere Milva su ottave basse. Ma mi ha lasciato allibito per perfezione». Esce dal clima dell’album la sola, sferzante
Il ballo del potere, che Milva ha trovato «divertente ed attuale: per una politica italiana che non è come vorrei». Ma tutto ciò (forse) è cronaca: ciò che conta qui è il clima. Del disco, intimista e dolente, dell’incontro con la signora. Una Milva che rifiuta un domani da revival: «Non scriverò autobiografie. Ci sono già troppi libri inutili». Una settantenne che il disco ha rischiato di non finirlo: «A maggio pensavo di morire, sono stata ricoverata, avevo perso lucidità. Lì ho capito che non ce la facevo più». Una donna che, forse, si è resa conto tardi che i riflettori non valgono gli affetti. «Ho fatto soffrire troppe persone, mia figlia non mi aveva mai vicina nel bisogno. E facevo male anche a me con tutti quegli impegni, tournée, viaggi…». E ora? Ora la fragilità viene cantata, a sigillo finale. L’ultimo tocco di narcisismo è in copertina, una foto d’antan in costume; a margine, un «Avrei amato dedicare l’ultimo lavoro a mamma e papà, ma ora… lo dedico a me stessa». Milva chiude così. Occhi lucidi, quasi a cercare un senso a decenni di applausi sul palco e solitudine nei camerini. Eppure ne avrebbe ancora, da insegnare ai giovani. E questo disco lo dimostra. Semmai, se possiamo annotarlo, sarebbe stato meglio curarlo con la stessa intensità artigiana che ci ha messo lei nel cantarlo. Computer e freddezze sintetiche si sposano male, con l’emozione di una signora che saluta chi l’ha amata e gli struggimenti di una donna fragile che, chissà, forse anche nel canto che dice d’addio cercava solo di ritrovare, finalmente, se stessa.