Ma come è possibile – si chiederebbe chi legge "L’equivoco del Sud" di Carlo Borgomeo appena edito e già ristampato da Laterza – aver sbagliato tutto, dopo aver speso miliardi e miliardi per il Mezzogiorno? Proprio così, risponderebbe l’autore, presidente della Fondazione con il Sud e profondo conoscitore della realtà economica e sociale meridionale. Lo scenario di fondo del "grande sbaglio" è aver misurato gli interventi e le distanze attuali tra Nord e Sud soltanto in termini quantitativi. Fa
mea culpa e ammette: «Abbiamo sbagliato tutti, anche noi meridionali». Ecco come l’economista Borgomeo spiega questi errori.
Perché abbiamo sbagliato politica?«Soltanto in una fase iniziale si può parlare di una politica frutto di una spinta nazionale condivisa e forte. Poi, un po’ alla volta, la cosa si è attenuata fino alla grande decisione dell’industrializzazione forzata come risposta al dramma della disoccupazione. Questa industrializzazione non è stata capace di contaminare in senso imprenditoriale il territorio. Un processo di industrializzazione ha senso se si radica bene nel territorio e se tiene conto delle sue condizioni. Si riteneva invece che la grande fabbrica non avesse bisogno di un contesto favorevole, essendo appunto forte e organizzata. Si pensava che bastasse questo perché si radicasse. Furono fatti
labour-intensive: chimica, siderurgia, eccetera, senza realizzare l’industria manifatturiera di seconda trasformazione che dà più occupazione».
Lei sostiene che le politiche a favore del Sud sono state sempre di tipo quantitativo e non qualitativo. L’errore è in questo equivoco?«Va riscoperto Giorgio Ceriani Sebregondi, che già negli anni ’50 descriveva le condizioni di uno sviluppo forte e non effimero. Sosteneva che qualsiasi intervento esterno ha senso e funziona se impatta su una realtà locale che ha individuato la migliore combinazione dei fattori locali. Senza questo sforzo, quanto viene da fuori fatica a innestarsi. Occorre capovolgere l’ordine del giorno. Siamo cresciuti in una cultura che considera la comunità, le relazioni positive, la coesione sociale figlie di un territorio ricco che sta bene. È invece il contrario. La coesione sociale è una premessa e non l’effetto dello sviluppo».
Il primo intervento pubblico importante per il Sud fu quello della Cassa per il Mezzogiorno. Perché l’esperienza si è poi conclusa?«All’inizio l’attività era fortemente concentrata su alcune opere di infrastrutture (bonifiche, Enel, strade, irrigazione), dopo c’è stata una molteplicità di interventi e si è persa la compattezza tecnica decisionale. La Cassa, nel disegno di De Gasperi, fu fortemente autonoma dalla politica, ma poi la politica ha preso il sopravvento. È diventata una macchina in cui l’autonomia tecnico-operativa doveva fare i conti con le scelte e le mediazioni politiche. Così si è svilita».
Ci sono stati poi altri tipi di interventi, come quelli dell’importante legge 488. Si è continuato a sbagliare?«Si sono ripetuti i rischi tradizionali di tutte le leggi che prevedono incentivi erogati in modo sbagliato: distorsione del mercato e sostegno a imprese che resistono soltanto perché aiutate. Gli interventi sono stati sempre e solo automatici. Automatico nel linguaggio comune significa veloce e trasparente; qui significa che si danno soldi senza valutare bene il piano imprenditoriale. L’incentivo allora ha soltanto la funzione di far resistere le imprese abbassando i costi. Questa non è incentivazione».
Lei parla di «sviluppo autopropulsivo». In che senso?«Non significa autarchico, che si fa tutto in casa e che non si vogliono aiuti. Significa che la prima scintilla deve avere forti radicamenti locali. Questo significa responsabilità dei soggetti, cultura delle situazioni locali. Si eviterebbero tanti errori. Il primo è questo: se sono ritenuto incapace di promuovere sviluppo, arriva qualcuno da fuori che me lo spiega ignorando però le mie tradizioni, la mia cultura e le mie relazioni con il territorio. Adriano Olivetti, quando inaugurò lo stabilimento di Pozzuoli, quasi quasi chiese scusa di inserirsi in una cultura diversa».
Nel dibattito sul Meridione nel 1989 entrò la Chiesa italiana, dopo circa 40 anni dalla lettera «I problemi del Mezzogiorno», con il documento della Cei «Sviluppo nella solidarietà». Con quali effetti?«Fu un documento organicamente innovativo. Fu redatto con una lucidità politica impressionante. Ha aiutato complessivamente la Chiesa. In alcune aree forse ci saremmo aspettati prese di posizioni più forti. Grazie a quel documento si può dire che sul territorio la rete più forte attualmente è quella della Chiesa e di molti suoi rappresentanti».
Quella per il Sud è una battaglia persa o è ancora possibile immaginare una politica corretta?«Al Sud ci sono le energie per farcela, ma occorre insistere sulle responsabilità dei soggetti locali; per fare questo è necessario abbandonare un obiettivo velleitario: quello di portare il reddito monetario degli abitanti del Mezzogiorno al pari di quello del Centro Nord. Questo obiettivo così complesso e difficile ha un effetto di deresponsabilizzazione. Il cittadino del Mezzogiorno deve avere le stesse condizioni di vita minime, dignitose, positive (scuola, salute, servizi) di chi vive nel Centro Nord».