martedì 21 gennaio 2014
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L'esortazione apostolica Evangelii Gaudium rappresenta un nuovo importante contributo alla dottrina sociale della Chiesa che segue idealmente i due ultimi pilastri del Compendio (una rilettura sistematica e attualizzata di tutti i temi della Dottrina sociale della Chiesa) e l’enciclica Caritas in Veritate che è la prima vera enciclica sociale che si trova a riflettere della globalizzazione a partire dalle res novae. Vi troviamo, soprattutto nel capitolo quarto, alcune intuizioni fulminanti che, a mio avviso, saranno pietre miliari per il cammino futuro come ad esempio i quattro principi fondamentali che dovrebbero guidare l’azione sociale verso il bene comune (Il tempo è superiore allo spazio, l’unità deve prevalere sul conflitto, la realtà è superiore all’idea, il tutto è superiore alla parte).Un altro tema fondamentale, e di assoluta continuità col filo conduttore di tutta la dottrina sociale dello smontare idoli e riduzionismi, è la confutazione dell’ideologia che il mercato di per se possa risolvere i problemi dell’umanità. Quando si sostiene che qualcosa non deve diventare un idolo non vuol dire che la cosa non abbia un valore positivo in sé, ma semplicemente che non va assolutizzata. Così è per il mercato. In particolare il Papa afferma che «non possiamo più confidare nelle forze cieche e nella mano invisibile del mercato. La crescita in equità esige qualcosa di più della crescita economica, benché la presupponga». E ancora: «Finché non si risolveranno radicalmente i problemi dei poveri, rinunciando all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e aggredendo le cause strutturali della "inequità", non si risolveranno i problemi del mondo e in definitiva nessun problema».Ma il passo più controverso che ha suscitato alcune reazioni critiche è quello nel quale il Papa fa riferimento indirettamente alla teoria economica (o almeno a una sua interpretazione) quando afferma al punto 54 che «alcuni ancora difendono le teorie della "ricaduta favorevole", che presuppongono che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo. Questa opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante. Nel frattempo, gli esclusi continuano ad aspettare».
Sottolineando poco più avanti le conseguenze pratiche di questa visione errata: «Per poter sostenere uno stile di vita che esclude gli altri, o per potersi entusiasmare con questo ideale egoistico, si è sviluppata una globalizzazione dell’indifferenza. Quasi senza accorgercene, diventiamo incapaci di provare compassione dinanzi al grido di dolore degli altri, non piangiamo più davanti al dramma degli altri, né ci interessa curarci di loro, come se tutto fosse una responsabilità a noi estranea che non ci compete».Un elemento chiave di quest’ultimo brano è nella parola equità che in spagnolo è "equidad" e nella versione inglese dell’esortazione viene tradotta (un po’ troppo liberamente) con "justice". Visti l’italiano e lo spagnolo il riferimento statistico più vicino e corretto è quello della diseguaglianza. Se vogliamo restare invece su un piano ideale, sicuramente "giustizia" ed "equità" sono collegate a una percezione soggettiva di un limite alle differenze di benessere e di opportunità che, se oltrepassato, produce ingiustizia e "inequità" che possono persino persistere in caso di riduzione della diseguaglianza statistica non abbastanza pronunciata rispetto alle attuali sperequazioni. L’esortazione dice dunque tre cose importanti: 1) non esiste «determinismo positivo mercatista» per il quale le forze automatiche del mercato (e, si sottolinea nel testo, «ogni» crescita economica che curiosamente sparisce sia dall’inglese) producono di per sé maggiore equità (ovvero riducono le diseguaglianze); 2) la conseguenza di questa mancata (o insufficiente) riduzione della diseguaglianza è che gli ultimi continuano ad aspettare (ovvero una riduzione troppo lenta, che si realizza oltre l’orizzonte di vita di chi oggi soffre le conseguenze dell’inequità, non produce per gli stessi alcun beneficio apprezzabile); 3) le conseguenze morali e pratiche di quest’ideologia "rassicurante" sono l’anestetizzazione del problema e il disimpegno che incide negativamente sulla messa in moto di quelle forze positive che potrebbero mettere le energie del mercato al servizio di maggiore giustizia ed equità.Il ragionamento è ineccepibile sia dal punto di vista etico che economico e assolutamente suffragato dai dati. Le ultime evidenze presentate da uno dei maggiori esperti di diseguaglianza a livello mondiale, Branco Milanovic, nel suo ultimo volume (Chi ha e chi non ha: storie di diseguaglianze) confermano che, se consideriamo il mondo come un unico Paese, la diseguaglianza non si sta riducendo. La crescita cumulativa del reddito per il top 1 percento più ricco della popolazione tra il 1998 e il 2008 è stata infatti superiore in media al 50% mentre quella del 5 per cento più povero sotto il 40 per cento. Le distanze dunque sono aumentate. Se è vero che stiamo assistendo al progressivo emergere di una classe media mondiale nei Paesi emergenti (il percentile centrale è cresciuto nello stesso periodo dell’80%), è anche vero che all’interno di moltissimi Paesi le diseguaglianze aumentano perché la globalizzazione aumenta i rendimenti della scolarizzazione e dunque i divari tra coloro che hanno il capitale umano per sfruttare le sue enormi potenzialità e coloro che non ce l’hanno. Quello che sorprende è che una delle reazioni più negative a questa parte della Evangelii Gaudium viene da un economista neokeynesiano come Robert Mankiw che, tra l’altro, ha pubblicato un lavoro fondamentale nel filone della convergenza condizionata nella teoria della crescita. Assieme ai colleghi Romer e Weil, Mankiw ha dato inizio a una serie di studi empirici che dimostrano come i Paesi poveri recuperano terreno rispetto ai Paesi ricchi (se consideriamo la media del reddito pro capite di ogni Paese) se e solo se (e qui sta la condizionalità della crescita) hanno qualità elevata in termini dei fattori di convergenza (i più importanti dei quali sono capitale umano, capitale fisico, qualità delle istituzioni, accesso alla rete, capitale sociale).
I dati confermano sostanzialmente la bontà della teoria, ma i tempi di convergenza sono molto lenti. Se ci divertiamo a estrapolare i tassi di crescita attuali scopriamo che i Paesi dell’est ci raggiungeranno in termini di reddito pro capite in 20-40 anni e per molti Paesi africani ci vorranno più di cent’anni. E resta il problema delle diseguaglianze interne a ciascun Paese su cui le stime della convergenza condizionata sorvolano utilizzando sempre livelli medi di reddito pro capite per Paese. In sostanza le verifiche empiriche della teoria della convergenza condizionata riscontrano nei dati esattamente quello che afferma l’Evangelii Gaudium. Non esiste un determinismo della convergenza che si realizza automaticamente, ma solo condizionatamente allo sforzo di ciascun Paese di migliorare il livello di istruzione, la qualità delle proprie istituzioni, le reti di relazioni, di fiducia e il senso civico e la diffusione delle tecnologie presso la quota maggiore possibile dei propri cittadini. E i tempi sono lenti, troppo lenti per gli ultimi.Papa Francesco dunque non fa che ribadire a fronte di un’attenta lettura dei dati che dobbiamo rimboccarci le maniche e che le magnifiche virtù progressive di un mercato che fa da solo il lavoro per noi sono solo l’alibi al nostro colpevole disimpegno (che non è certo il caso di Mankiw e di tanti colleghi che dedicano la loro vita ed energie alla soluzione di questi problemi). Realizzare il bene comune possibile nella nostra epoca e perseguire l’obiettivo ambizioso di una «crescita in equità esige qualcosa di più della crescita economica, benché la presupponga». Dobbiamo dire chiaramente, come esorta l’Evangelii Gaudium, che non esistono mani invisibili che risolvono da sole i nostri problemi ma biciclette che dobbiamo pedalare se vogliamo tutti partecipare all’affascinante e sfidante avventura del progresso umano e spirituale dell’umanità.
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