Adam Driver e Nathalie Emmanuel in una scena di "Megalopolis" di Francis Ford Coppola - -
Informato del fatto che il nuovo film di Francis Ford Coppola si ispira alla congiura di Catilina, lo spettatore si presenta al cinema scortato dai suoi classici. Solo che in tasca la cronaca di Sallustio risulta scomoda e le orazioni di Cicerone rischiano di sporcarsi se lasciate per terra. Entrambi i volumi vengono sistemati sui braccioli della poltrona e lì restano in bilico, pronti a cadere da un momento all’altro. Ecco, la prima immagine che appare sullo schermo è proprio questa: il protagonista di Megalopolis è sul cornicione di un grattacielo di quella che sarebbe una New York futuribile e invece viene chiamata New Rome. Cesar Catilina (interpretato da Adam Driver) muove un passo in avanti, ma rimane inspiegabilmente sospeso nel vuoto. A un suo comando il tempo si è fermato, a un suo comando il tempo torna a fluire. Tra un istante e l’altro l’abisso è stato sfidato e sconfitto, possiamo cominciare a raccontare la nostra storia. Meglio, la nostra favola, perché è così che il regista qualifica quest’opera altrimenti indefinibile, nella quale c’è troppo di tutto e non abbastanza di niente. Non fosse che per il peso soverchiante delle ambizioni che Coppola ha riversato sul suo ennesimo kolossal (non bastava la trilogia del Padrino? non bastavano Dracula e Apocalypse Now?), Megalopolis è subito condannato a viaggiare sull’orlo del precipizio: il disastro sembra inevitabile, ma ogni volta spunta un dettaglio o un’inquadratura che – nonostante la sensazione di grandioso pasticcio – rivela il tocco del maestro. Sulla questione della favola torneremo tra poco. Per il momento importa sottolineare come e quanto Megalopolis sia un film a tesi. Coppola non si stanca di ripetere l’assunto centrale di una sceneggiatura della quale rivendica la paternità esclusiva. La Roma repubblicana, spiega, è il modello sul quale i padri fondatori hanno edificato gli Stati Uniti d’America. E per questo basterebbe affidarsi alla toponomastica, rilevando come a Washington la sede del Congresso si trovi a Capitol Hill, che del Campidoglio è la traduzione letterale. C’è di più, si capisce. C’è la volontà di sottrarsi al potere di un Impero lontano e ostile, e pazienza se la storia di Roma procede semmai al contrario, con una città che, di conquista in conquista, si espande al punto tale da strutturarsi in forma imperiale.
Per restare in ambito cinematografico, l’argomento è già stato affrontato, e in modo decisamente più efficace, nella saga di Star Wars, in particolare in quelli che, secondo l’ordine cronologico, sarebbero i primi episodi, diretti da George Lucas tra il 1999 e il 2005. Il combinato disposto di La minaccia fantasma, L’attacco dei cloni e La vendetta dei Sith ripercorre la degenerazione che dal governo dei molti porta al dispotismo di uno solo, e la battuta pronunciata dalla regina Padmé Amidala («È così che muore la libertà, sotto scroscianti applausi») vale quanto un trattato di politologia.
Il guaio è che Megalopolis non raggiunge mai un simile livello di memorabilità. Per paradosso, l’unico elemento sufficientemente chiaro è lo svolgimento della trama. Siamo a New Rome, l’abbiamo detto. Un contrasto insanabile oppone il sindaco conservatore Franklin Cicerone (l’attore Giancarlo Esposito) all’innovatore Catilina, che ricopre una carica paragonabile a quella degli antichi aediles. Catilina, però, è anche una specie di Elon Musk vinto il premio Nobel per aver inventato un materiale dalle proprietà strabilianti, con il quale vuole costruire una città che cresca e respiri come una pianta. Cicerone lo ostacola, ma non va sottovalutata la faida che si consuma nella famiglia del potente banchiere Hamilton Crasso (Jon Voight), da poco convolato a nozze con la spregiudicata Wow Platinum (Aubrey Plaza), la quale ha stretto un patto scellerato con il nipote del magnate, il perverso agitatore Clodio Pulcro (Shia LaBeouf).
Divisi da tutto, Cicerone e Catilina sono uniti dall’amore per la figlia del sindaco, Giulia (Nathalie Emmanuel), anche lei misteriosamente capace di agire sul corso del tempo. Con buona pace di Sallustio e ancor più di Cicerone, il finale non coincide con la sconfitta dell’insorto Catilina, anche perché qui poi non è Catilina a insorgere e chiunque lo faccia viene sgominato con un intervento fuori campo che corrisponde a uno dei tanti salti logici del racconto. D’accordo, si dirà, ma se questa è una favola, perché accapigliarsi sulla verosimiglianza? Perché la caratteristica costitutiva del fantastico sta nello stabilire un sistema di regole che, per quanto improbabili, esigono di essere applicate in modo scrupoloso. In Megalopolis, viceversa, tutto è arbitrario, a partire dal profluvio di citazioni di provenienza disparata. Quando meno te l’aspetti, parte una raffica di Shakespeare, alla quale replica una sventagliata di latinorum, poi si intromette un imitatore di Elvis che saluta in giapponese un pubblico di straccioni trumpiani, le Torri Gemelle cadono, sui tetti si balla come in un film di Sorrentino e la Statua della Libertà avvampa come in un incubo di Kafka.
L’impresa di tenere le fila di un guazzabuglio che non fa distinzione tra Marco Aurelio e Robin Hood sarebbe demandata al factotum di Catilina, l’imperscrutabile Fundi Romaine (Laurence Fishburne), ma anche lui fa quel che riesce. Quando in sala si riaccendono le luci, lo spettatore lancia un’occhiata perplessa ai libri che si era portati appresso. Confuso è confuso, ma gli resta una certezza: solo un gigante come Coppola poteva prendersi la soddisfazione di scritturare Dustin Hoffman per farlo fuori dopo una manciata di inquadrature.