Nato nel 1923, veneto, l’autore Arturo Benvenuti ha attraversato con la sua biografia e non per sentito dire il secondo conflitto mondiale. Ragioniere e bancario, artista e poeta, non dimentica il tempo buio trascorso, i volti degli amici ebrei scomparsi, le storie di chi era tornato dall’inferno dell’annientamento sistematico. Così nel 1979, a 56 anni, decide con la moglie di raggiungere in camper Auschwitz, Theresienstadt, Mauthausen-Gusen, Buchenwald, Dachau, Gonars, Monigo, Renicci, Banjica, Ravensbrück, Jasenovac, Bergen-Belsen, Gurs, così come le maggiori città del Vecchio continente – dalla Cecoslovacchia all’Austria, dalla Polonia alla Norvegia, dall’Ungheria alla Germania, dalla Danimarca all’Italia – dove visita archivi, musei, biblioteche, uffici, incontrando i sopravvissuti o i loro parenti. Che gli consentono di accedere con la sua macchina fotografica a brandelli di storia, incisioni e acquarelli, icone e ritratti dolenti di quotidianità sfuggita a scatti e filmati in tempo reale. «Chi era nei campi ha visto tutto dal vivo, restituendo così l’idea del dramma vissuto senza bisogno di parole – sottolinea Benvenuti –. Non è stato facile cercare e ottenere queste immagini, ma con il passaparola qualcuno è venuto anche a casa mia senza che lo conoscessi. E dalla Russia una vedova mi ha mandato le copie dei disegni fatti da suo marito».
L’acronimo del titolo? Deriva dalla lingua yiddish e sta per “Konzentration Zenter” (campo di concentramento), ma rimanda anche a “Ka-tzetnik” (prigioniero del campo di concentramento), «con riferimento al detenuto piuttosto che al luogo o alla forma di detenzione. Ka-tzetnik associato al numero era il modo abituale con cui venivano chiamati i prigionieri nei campi, e la parola nasce proprio dalla sigla K.Z. pronunciata alla tedesca», spiega Benvenuti. Durante questo lungo e doloroso pellegrinaggio ha composto cinque brevissime liriche accomunate dal medesimo slancio etico: le vittime sono tutte degne di rispetto e di memoria, «senza alcun campanilismo». Un intento compreso da Primo Levi, che nel 1981 accettò eccezionalmente di firmare la prefazione al libro: «Un atto di fiducia che mi ha onorato – ricorda l’autore –. Gli scrissi mandandogli la documentazione e mi rispose con una lettera, poi ci siamo sentiti al telefono. Mi disse che non lo faceva per nessuno, ma che accettava perché avevo lavorato con onestà e serietà».
Ormai ultranovantenne, Benvenuti resta granitico nelle sue convinzioni. La logica «dell’annientamento attraverso il camino», quell’oscuro passato, resta e ritorna al netto di ogni retorica. «Ci sono rigurgiti anche oggi di discriminazione e abbiamo bisogno di ricordare. Penso ai miei nipoti e ai miei pronipoti, ai giovani: spero di aver fatto qualcosa di buono per loro», conclude lucidamente. Perché non ci si può assuefare al dolore e far finta di non vedere – girando alzando le spalle a mo’ di rassegnata indifferenza – gli eccidi che avvengono in Siria o in Nigeria o, qualche anno fa, nell’ex Jugoslavia. La violenza fine a se stessa, contro qualsiasi persona umana, non deve mai essere omologata né derubricata a fatto che non tocca da vicino, conficcata nella carne, la propria coscienza. Lo ribadisce nella poesia Il tunnel (sottopassaggio percorso dai deportati verso le camere a gas), scritta nel giugno 1980 presso il campo di Theresienstadt: «Colma sarà la nostra vita / quando crescerci dentro / saprà la giusta misura / della vostra lucida agonia».