Gino De Dominicis, "Senza titolo (Autoritratto)", 1995. L'opera è esposta nella mostra "Black Hole. Arte e matericità tra Informe e Invisibile" alla Gamec di Bergamo (4 ottobre-6 gennaio)
Black Hole - Arte e matericità tra Informe e Invisibile: così la Galleria di Arte Moderna e Contemporanea (Gamec) di Bergamo accoglierà i visitatori della mostra allestita all’interno della rassegna orobica: fiore all’occhiello dell’iniziativa è l’attesa conferenza sull’origine della materia e la sua natura – tenuta dal fisico Giulio Peruzzi, docente all’Università di Padova – che tratterà l’aspetto più squisitamente storico-filosofico del tema. La mostra si inserisce nel programma del XVI festival BergamoScienza, dal 6 al 21 ottobre.
“Note sulla nozione di massa da Galileo al XX secolo” è il titolo del suo intervento. Perché “Note”?
«Perché le mie sono solo note, essendo un enorme tema, che abbraccia un arco temporale molto lungo. D’altra parte, quella di massa è tra le nozioni fondamentali associate ai corpi: mi sembrava utile un excursus storico-filosofico su questo concetto, assai difficile, della scienza moderna».
Perché la nozione di “massa” è tanto problematica?
«Ciò che definiamo massa, in ambito scientifico, si manifesta in una pluralità di aspetti: si è soliti paragonarla a “un attore che appare sulla scena sotto varie spoglie, ma mai nel suo vero aspetto. Può presentarsi come carica gravitazionale, inerzia o energia, ma non si mostra mai ai nostri sensi in se stessa senza travestimento”. Nella conferenza vedremo come questi aspetti sono stati identificati e quantificati, sulla scorta di alcuni risultati preliminari di Galileo, e poi sviluppati pienamente – a partire da Newton – nel corso del Settecento e dell’Ottocento. Dalla seconda metà dell’Ottocento fino ai giorni nostri, è indispensabile confrontarsi con i mutamenti che – contestualmente alla nozione di massa – coinvolgono altri fondamenti della fisica: di spazio, tempo o oggetto fisico. Non si può prescindere dai grandi quadri interpretativi delle teorie della relatività di Einstein – ristretta (1905) e generale (1915) – e dalla meccanica quantistica (1925)».
Perché ha ritenuto di limitarsi al periodo da Galileo al XX secolo?
«Per capire la molteplicità di contenuti insiti nella “massa” non si può non ricordare il percorso compiuto dalla scienza. Qui ritengo doveroso far riflettere il pubblico su alcune cruciali questioni in merito al significato moderno di scienza: troppo spesso assistiamo al vezzo di parlare di scienza partendo dall’antichità. Tuttavia, la scienza degli antichi manifesta caratteri di incommensurabilità con quella moderna, mescola contenuti metafisici e teologici a indagini di fenomeni naturali. Per non incorrere in equivoco, sottolineo che mi riferirò alla scienza nata dalla “rivoluzione scientifica” tra Cinquecento e Seicento. La fase di gestazione dell’epopea moderna è simbolicamente racchiusa nell’intervallo di tempo tra due date di pubblicazione: 1543 - De Revolutionibus di Copernico e 1687 - Philosophiae Naturalis Principia Mathematica di Newton. A cogliere appieno caratteri e modernità è Galileo, proprio nel bel mezzo di questo lasso temporale. L’opera di Galileo e Newton segna la nascita definitiva della cosiddetta “meccanica classica”, modello di riferimento per oltre due secoli dello studio dei moti dei corpi materiali. Per quanto familiare, la meccanica classica segna il passaggio a una rappresentazione astratta dal senso comune costruito sulle nostre percezioni. Anzi, la scienza nasce e progredisce per successive astrazioni dal senso comune: non a caso, le nozioni primitive su cui Newton, e Galileo prima di lui, fondano la scienza moderna – quelle di massa, spazio, tempo, forza – sono ridefinizioni astratte e formalizzate di usuali osservazioni».
La scienza nata dalla “rivoluzione scientifica” è l’unica considerazione che giustifica il titolo?
«Ha ragione, perché, fino alla fine dell’Ottocento, la meccanica di Galileo e Newton, quella “classica”, è considerata una teoria con pretese universali, in grado, cioè, di spiegare i fenomeni a tutte le scale di grandezza – dall’infinitamente piccolo al grande – qualunque fossero energie e velocità in gioco. Tuttavia, nel corso dell’Ottocento, si evidenziano progressivamente fenomeni che incrinano questa convinzione, definitivamente abbandonata nel Novecento con l’avvento delle teorie della relatività ristretta e generale di Einstein e della meccanica quantistica. La meccanica classica mantiene la propria validità ed è tuttora oggetto di studio, ma abbiamo imparato che approssima piuttosto bene fenomeni all’interno di un certo dominio, relativi a corpi alla nostra “portata” – né troppo piccoli né troppo grandi – in cui le velocità in gioco sono di gran lunga minori di quella della luce. I nuovi quadri interpretativi novecenteschi ci permettono di stabilire quanto buona sia l’approssimazione e quali i limiti di applicabilità della meccanica classica. Esiste, comunque, per quanto “rivoluzionarie” le teorie relativistiche e la meccanica quantistica, una linea di continuità che lega Galileo al XX secolo».
E i rapporti con l’arte?
«La materia tradizionale usata dallo scultore o dal pittore, al di là delle suggestioni prodotte da forme e colori, è tutta interna al perimetro della meccanica classica. Oltre ai contenuti “visivi”, le opere d’arte oggi fanno ampio uso di strumenti espressivi ben diversi da quelli tradizionali di pittura e scultura, svincolandosi dalla “matericità”. Di fronte ad un’arte che cerca di esprimere le nuove acquisizioni della scienza, lo spettatore si meraviglia. È il primo passo per cercare di capire, un passo non diverso da quello compiuto dagli scienziati, da Galileo in poi, colti dalla “maraviglia” di fronte ai fenomeni naturali. Proprio questa innocenza nel meravigliarsi segna il tratto dello scienziato».