I due film italiani più belli e significativi realizzati l’anno scorso nel nostro Paese, i più diversi dalla solita turlupinante fiction, hanno anche il pregio di una tensione 'verticale', di un sentimento del vero, del giusto e del sacro che nella nostra tradizione cinematografica compaiono raramente, se non in termini blandamente consolatori e sostanzialmente evasivi. Sono
La bocca del lupo di Pietro Marcello, lungometraggio sulla Genova di ieri e sugli emarginati di oggi, d’impianto documentario ma in forme di elaborazione e costruzione poetica e non di registrazione, che esiste grazie al concreto aiuto dei gesuiti della comunità di San Marcellino che da mezzo secolo assistono i senza dimora e senza mezzi. Se ne è parlato molto quando ha vinto il festival di Torino qualche settimana fa, e se parlerà, spero, molto quando uscirà nelle sale attorno alla metà di febbraio. L’altro film è
L’uomo che verrà di Giorgio Diritti, ed è, come si dice, un film 'a soggetto', anche se la sua invenzione pienamente narrativa ha radici documentate e fortissime in un fatto storico, il massacro di Marzabotto della fine di settembre del 1944 che vide perire per mano nazista 770 persone donne, bambini, vecchi, con i loro preti. (Particolarmente toccante è la scena dell’uccisione di uno di loro, sull’altare, dopo che, aspettando la fine, si è comunicato; ma molte sono le figure di preti e monache e loro famigliari che si comportano, come di fatto è accaduto, all’altezza della terribile situazione.) Appartenevano quasi tutte al comune di Marzabotto, sull’Appennino appena a nord di Bologna, le frazioni dove la strage ebbe luogo, raccolte attorno al Monte Sole, dove negli anni ottanta Giuseppe Dossetti deciderà di vivere e di portare avanti le sue ultime battaglie, scegliendo come luogo della propria morte quello dove tanto sangue innocente era stato versato. Giorgio Diritti, che ha esordito già cinquantenne con un altro film memorabile, Il vento fa il suo giro, sul nostro normale razzismo quotidiano, è partito dai documenti e dalle memorie e ha costruito il suo film allargandone l’azione ai nove mesi che portano alla nascita di un bambino, nella casa colonica di una vasta famiglia mezzadrile come ce n’erano al tempo in tutto l’Appennino. La donna che gli dà la luce ha visto morire sul nascere un altro figlio, la cui sorellina è la vera protagonista del film, lo sguardo attraverso il quale noi seguiamo gli avvenimenti, precipitata in uno strano mutismo quando il piccolo è morto e dunque puro sguardo registrante, giudicante. Il nuovo fratellino nascerà nei giorni della strage e sarà lei a salvarlo, è lui, «l’uomo che verrà». Il perfetto racconto della vita quotidiana in una famiglia contadina di quei tempi (che ha paragoni nel nostro cinema solo con
L’albero degli zoccoli di Olmi, ma qui coinvolge, con un rigore che oso dire dreyeriano, attori di austera immediatezza, mai prima così bravi e coinvolti) e la precisa ricostruzione della strage nella sua implacabile e atroce scansione, non sono sotto il segno della tradizione più esteriore del nostro cinema, o meglio, più realista o neorealista, legata agli aneddoti e ai personaggi e quasi sempre appesantita e limitata da un’orizzontalità senza volo. Qui è la necessaria verticalità dell’arte a imporsi, a destare lo spettatore a sensazioni più profonde e a riflessioni più alte. È tutto l’orrore del mondo, dell’homo homini lupus , della violenza della storia, dell’abominio delle guerre a venire evocato, attraverso quotidiane vicende di vita in tempo di guerra. In un mondo di odio, la risposta partigiana è una necessità sostenuta dalla popolazione perché è dalla popolazione che nasce, nonostante tutte le sue contraddizioni e i dubbi sull’esercizio della violenza in risposta alla violenza («solo violenza aiuta dove violenza regna», diceva Brecht; una condanna più che una soluzione, e non si deve mai smettere dal cercare altre strade), ma il mondo degli inermi e degli innocenti è destinato lo stesso a soccombere alle armi dei più forti. Il regista sa dosare con rara capacità di controllo quel che va mostrato e quel che va accennato e lascia a noi di tirare le somme, a noi che seguiamo l’azione con gli occhi di una bambina muta di otto anni di età. Il coro dei personaggi e la pluralità degli ambienti, il prima e il durante, il succedersi e il crescendo degli eventi e il loro spegnersi nel lutto, non riguardano soltanto - è questa la vera forza del film - un fatto specifico bensì mille, migliaia, milioni di altri fatti consimili di ieri e di oggi, in ogni parte del mondo. E la rivolta contro questa violenza, questa condizione dell’uomo vittima e carnefice, è mostrata nel film con la constatazione della forza della vita (la meravigliosa capacità di resistenza dell’infanzia) e soprattutto con la speranza e l’utopia di un futuro liberato, grazie a «l’uomo che verrà». Non perdete questo film, procurategli spettatori. È importante farlo perché si possa affrontare più responsabilmente il nuovo anno, noi che ci lasciamo trascinare dagli eventi e addormentare dai consumi e dalle propagande. È soltanto a partire dai problemi più gravi e decisivi che si può tornare a ragionare, e non dai ricatti di una corrotta attualità. Due scene dal film «L’uomo che verrà», con Greta Zuccheri Montanari, di Giorgio Diritti. Sotto, il regista sul set