giovedì 11 luglio 2013
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Nel 1959 visitò per la prima volta Gerusalemme. Il territorio era in stato di armistizio, in attesa del trattato di pace, ma i soldati tenevano i fucili puntati da una parte e dall’altra. In mezzo, la no man’s land, la zona nella quale nessuno poteva entrare senza rischiare la propria vita. Erano tempi pericolosi, tanto che bisognava percorrere il tratto di strada che costeggiava le antiche mura di Gerusalemme molto velocemente e con la massima cautela per evitare il fuoco dei cecchini.Faceva il primo viaggio di studi in Medio Oriente alla scoperta degli scavi e degli strati antichi, dunque con occhi di archeologo, con sguardo un po’ profano. Arrivando a Gerusalemme da Amman la sera del 12 luglio, dopo aver attraversato il deserto e il fiume Giordano, padre Carlo Maria Martini si rese conto che il giorno dopo ricorreva il settimo anniversario della sua prima messa e, nonostante l’ora tarda, riuscì a ottenere di poter celebrare, la mattina seguente, l’Eucaristia al Santo Sepolcro. Si alzò verso le 3.30 e si avviò camminando lungo i vicoli deserti della città per raggiungere la Basilica, e alle 4 del mattino celebrò l’Eucaristia al Santo Sepolcro.«Fu proprio in quel momento che ebbi una folgorazione sulla Risurrezione di Cristo». Ebbe una sensazione fortissima di vita, di ciò che significa vita: pregando e celebrando da solo sulla pietra del Sepolcro, con pochissime persone che assistevano di fuori, gli parve di cogliere in una maniera straordinariamente lucida che la vita era il tema nodale di tutte le religioni, era l’anelito dell’umanità, che in quel luogo si concentrava ogni speranza, ogni certezza, tutta la fiducia di vita.Fu difficile per lui descrivere l’esperienza vissuta, l’intuizione avuta di una vita che non finisce mai, che scoppia, deborda, abbraccia l’universo; la sensazione che tutte le religioni si giocano sul tema della vita per sempre, della risurrezione e che quindi, a partire da lì, tutto doveva essere compreso e giudicato. Quell’incontro con la Città Santa fu una sorta di inizio assoluto nella vita del futuro cardinale, perché fu per lui come «ricevere un’appartenenza che era un dono dall’alto». Ritenne quell’esperienza come una vera celebrazione del primato della grazia divina.Al tempo stesso ebbe in quel viaggio un’esperienza di morte (gli rimase così impressa nell’anima che negli anni la raccontò più volte). Seppur drammatica, apparentemente fu un’esperienza semplice, quasi banale. Stava visitando con i suoi compagni, non lontano da Gerusalemme, i grandi pozzi di El Gib (l’antica Gàbaon), scavati al tempo del re Salomone, pozzi profondi decine di metri, nel luogo del sogno di Salomone, nel quale chiese al Signore il dono della sapienza. Intorno ai grandi, profondi pozzi in muratura, gli archeologi avevano ammassato un grande cumulo di terra, materiale proveniente dagli scavi. Per fotografare un pozzo, occorreva salirvi sopra e sporgersi. La comitiva (una trentina di persone) passò lungo questo cumulo, facendo le fotografie. Martini era l’ultimo e, quando venne il suo turno di scattare la foto, la montagnola di sabbia e sassi cominciò a franare, forse perché troppo calpestata; così incominciò a scivolare giù insieme alla sabbia. Si vedeva ormai morto sommerso.Ma improvvisamente gli venne un pensiero: «Come è bello morire qui in Terra Santa!». Questo pensiero gli diede una grande calma. Si sentiva tranquillo, sereno: quasi contento di ciò che stava accadendo. Senza agitarsi, mise le mani tranquillamente dentro la terra e a un certo punto si fermò. «Credo anzi che proprio questa assoluta tranquillità mi abbia salvato: infatti, essendo in pace, mentre precipitavo, infilavo istintivamente le mani nella massa di sabbia mischiata a sassi, e riuscii a fermarmi un attimo prima di cadere sul fondo». Fu salvato da alcuni arabi che erano lì vicino. La macchina fotografica che portava fu sbalzata via e l’orologio andò a finire in mezzo alla strada. Uscì dal pozzo quasi incolume e con l’idea che quella era la sua terra. Ebbe un’intuizione molto forte: «Ciascuno è nato a Gerusalemme».
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