Il regista lituano Mantas Kvedaravicius - Ukrinform
Il documentario Mariupolis 2 ha già fatto il giro del mondo, insieme alle agenzie che, ad aprile, hanno riportato l’assassinio del suo regista, Mantas Kvedaravicius, antropologo lituano, noto precedentemente per il cortometraggio Mariupolis: una smagata cronaca della vita quotidiana della piccola cittadina di Mariupol, sotto assedio nei giorni dell’annessione della Crimea, presentato al Festival Internazionale del Cinema di Berlino nel 2016. Il documentarista, come noto, è stato ucciso qualche mese fa, in Ucraina, durante le riprese di Mariupolis 2, mentre testimoniava l’ulteriore schiaffo subito dalla città, a 8 anni di distanza dalla prima aggressione russa.
Quell’anno, a Berlino, come in tanti ricorderanno, disse: «Amo i luoghi che sono attraenti per ragioni sconosciute, proprio come questa cittadina che porta il nome della Madonna. Amo i luoghi in cui tutto sta andando storto e improvvisamente le persone iniziano ad apparire, a materializzarsi su questo sfondo per cercare di restare umane in nome della parola solidarietà. Questo film è dedicato tanto ai poeti di Mariupol quanto ai suoi calzolai. Vedo infatti la calzatura, un settore così in crescita in questa città, come una sorta di poesia: non possiamo andare in giro scalzi, così come non possiamo vivere senza fantasia e arte. Sarebbe molto difficile concentrarsi sull'arte quando sei scalzo. Mariupol è un luogo con un'atmosfera molto specifica. Da un lato porta ancora le impronte della sua antica mitologia greca; dall’altro esiste in questa dura realtà post-sovietica, molto strana ma concreta e presente, che porta un sentimento di grande disagio e persino di paura. Le fabbriche, il mare, gli onnipresenti soldati, i suoni del violino che si fondono con il suono dei proiettili che esplodono: tutto questo forma quello che definirei il surrealismo di Mariupol».
Quest’anno, a Cannes, dinanzi a un pubblico commosso, c’era solo la sua compagna di vita, Hanna Bilobrova, attrice e co-regista di Mariupolis 2. La donna ha raccolto il materiale messo insieme, in quelle settimane difficili, con l’aiuto della montatrice Sichov. Le sequenze del documentario mostrano le vite, ulteriormente messe a dura prova, di trenta fra bambini e anziani, finiti d’improvviso a vivere nella cantina di una Chiesa. Non ci sono inutili orpelli nelle sequenze, non ci sono scene strazianti e orrore sguaiato, così come invece – fin troppo spesso – viene proposto dalle tv. Eppure, proprio in quella riproposizione della quotidianità stravolta, che a un certo punto diventa normalità, si prova una sensazione di straniante angoscia, determinata da vite che, in molti casi, si trovano intrappolate come topi, con la consapevolezza di non avere vie di fuga.
Mariupol, nel secondo intenso documentario del regista scomparso, non conosce ancora il suo destino, ma nel buio di quei mattoni, sottoterra, la gente percepisce un epilogo criminale, determinato da una sospensione della storia e dei suoi testimoni, e concentrata sullo svuotamento graduale di luci, oggetti, frasi, gesti…Scarpe. A che servono le scarpe in un bunker di guerra senza scampo? Mantas Kvedaravicius ha lavorato su scene volutamente scarne, diluite in un’ora e 45 minuti, dove non ci sono i soliti soldati o le solite armi a cui la cittadina era, in un certo senso, abituata in questi ultimi anni, ma solo gente comune «che si trova in mezzo alla tempesta senza risultare interessante né per la politica mondiale né per l’ostentazione mediatica», come ha dichiarato la co-regista.
L’attenzione dello spettatore cade invece su gruppetti di persone smarrite e raccolte in preghiera, nella speranza che qualcuno – molto in “alto” – raccolga il messaggio di salvezza, la richiesta di aiuto. Il mondo del cinema ha reso saggiamente un omaggio postumo, a Cannes, al regista ucciso e la sua compagna, a colloquio con i giornalisti, facendo riferimento a un libro del ’52, da poco riedito anche in Italia, da Adelphi, Stalingrado, di Vasilij Grossman, ha ricordato come, nelle guerre, esista sempre un doppio binario: quello della Storia dei capi e degli Stati e quello delle storie.
«A Mariupol – ha detto la giovane attrice e regista – si è verificata proprio quella forza malvagia di cui parla Grossman. Mantas aveva intuito l’orrore dell’attimo cruciale in cui si manifesta un gorgo della Storia, dove non importa più del valore delle singole vite». Mentre si guardano le scene del documentario, non si può non riflettere su queste parole e su come, quasi per ironia della sorte, Mariupolis parte seconda si trovi a esser modellata sui sentimenti resi già vivi nelle pagine di Stalingrado.