Marco Van Basten, classe 1964, al Milan dal 1987 al ’95: ha vinto 4 scudetti 3 Coppe dei Campioni e tre volte Pallone d’Oro
«D’un tratto lo sento, chiarissimo, prendo coscienza. Sotto gli occhi degli ottantamila, sono testimone del mio addio. Marco Van Basten, il calciatore, non esiste più. State guardando uno che non è più. State applaudendo un fantasma. Corro e batto le mani, ma già non ci sono più». L’ha intitolata Fragile la propria autobiografia, il “cigno di Utrecht”. Una fragilità che ha tolto dal proscenio del grande football e dalla Scala del calcio, in quella notte tristemente magica, uno dei dieci giocatori più forti del secolo scorso secondo la rivista britannica World Soccer.
Oggi, a 55 anni, Marcel Van Basten, detto Marco, ha deciso di mettersi per iscritto: «Non risparmierò nessuno, tantomeno me stesso». E uno dei passaggi più cruciali e toccanti della sua storia è proprio l’addio al suo grande amore, la sera del 18 agosto 1995, davanti al suo pubblico, nel suo stadio, una osannante e piangente San Siro rossonera. Marco corre in abiti civili, applaude e alza le mani in quel giro di campo, mentre nel suo cuore alle grida dei tifosi risponde un assordante silenzio. E a prevalere in lui, come negli ultimi anni, è quell’acuto e incessante dolore alle caviglie. Fragili, troppo, per consentirgli di giocare altri dieci anni. E arrivare alla soglia dei quarant’anni, come avrebbe desiderato e come sta facendo oggi un altro rossonero, Zlatan Ibrahimovic.
Invece Van Basten è stato l’unico grande campione, come amaramente sottolineato dall’ultimo medico che l’ha operato, Niek Van Dijk, ad aver dovuto smettere di giocare a soli 28 anni per una facilmente risolvibile rottura dei legamenti a una caviglia. Operazioni sbagliate, quelle dei luminari René Marti prima e Marc Martens poi. Fino ad arrivare a portare per mesi il pesante e opprimente apparato di Ilizarov e a farsi un semestre con le stampelle, mentre il presidente Berlusconi invano aspettava il ritorno del suo goleador.
Fragile, dunque, ma anche duro e determinato, il cigno di Utrecht. Elegante a tal punto da essere soprannominato «Nureyev» da patron Berlusconi. «Quello che tutti trovavano bello nel mio stile era la postura così eretta – scrive Van Basten – . Io però non riuscivo proprio a stare più vicino a terra dopo l’intervento del 1987, non potevo più piegare tanto bene la caviglia. Per questo negli anni successivi ho assunto una posizione più eretta. La combinazione perfetta di coordinazione ed equilibrio». Van Basten ci fa entrare in punta di piedi e di penna nei meandri della sofferenza, nelle zone d’ombra di un tre volte Pallone d’oro, del miglior giocatore del mondo nel ’92 (nell’anno del terzo Pallone d’oro), per quella Fifa di cui oggi è planetario ambasciatore.
Fragile e sincero, soprattutto quando a trent’anni di distanza confessa: «Non si meritava quella pugnalata». Sono le pagine in cui rievoca i dissidi e le incomprensioni con Arrigo Sacchi. Tra i due non c’era mai stato feeling. A Van Basten, istintivo segugio del gol, le lezioni di tattica dell’allenatore avevano sempre suscitato insofferenza. Abituato a una certa libertà e leggerezza ambientale all’Ajax, quando nell’87 arriva alla corte di Berlusconi e si trova il nuovo mister si mette subito di traverso. «Mi sono svegliato poco fa. Sento che fuori è ancora freddo, mi basta avvicinarmi alla finestra – racconta il suo approdo a Milanello, l’olandese – . Di notte la temperatura va parecchio giù da queste parti, nella Pianura Padana, a nord ovest di Milano. Non ho la minima voglia di alzarmi, ma fra mezz’ora c’è la colazione con tutta la squadra. Sacchi vorrà farci un altro di quei suoi discorsi tattici».
I gol di Van Basten capocannoniere e le vittorie di quegli anni formidabili (scudetto, coppe dei campioni e intercontinentale), che hanno fatto del Milan dell’Arrigo la squadra di club più esemplare di tutti i tempi insieme alla grande Ajax di Cruijff, avevano naturalmente neutralizzato e messo il silenziatore a qualsiasi frizione interna. Ma sotto la cenere qualcosa era pronto a esplodere. La stagione 1990/91 del Milan del trio olandese Van Basten, Gullit e Rijkaard, della cerniera difensiva di Baresi, Tassotti, Maldini, Costacurta e Galli, del centrocampo di Ancelotti, Albertini e Donadoni, era stata al di sotto delle aspettative. «Sembrava che la chimica fra allenatore e squadra fosse come svanita – scrive l’attaccante olandese – . E io non mi facevo problemi a dire la mia. Avevo ancora fame di vittorie e dovevo liberarmi di tutto ciò che ostacolava il percorso verso la meta, perfino l’allenatore, se necessario. Sono fatto così».
Teatro dello scontro finale non poteva che essere lo spogliatoio. Il detonatore, l’ennesimo discorso tattico del futuro ct della Nazionale e una spiegazione del ruolo che avrebbe assegnato in partita a Van Basten. L’attaccante lo interrompe e, unico testimone il massaggiatore del Milan, senza alcuno scrupoli sbotta: «Mister, voglio che sia chiara una cosa. Tu continui a dire che siamo vincenti proprio perché abbiamo lavorato con te, io invece vorrei metterla diversamente. Non abbiamo vinto tutti quei premi perché ci sei stato tu, ma nonostante ci fossi tu».
Sacchi rimase giustamente scioccato, uscì dalla stanza senza dire una parola. Poi andò da Berlusconi: o lui o Van Basten. Benché molto sofferta, la scelta del presidente cadde sul suo Nureyev e in panchina arrivò Fabio Capello con un seguito di quattro futuri scudetti, una Champions e quattro Supercoppe (tre italiane e una europea) che fece di quel Milan una squadra di «Invincibili». Una pugnalata, definisce invece oggi il cigno di Utrecht quell’affronto a Sacchi: «Col senno di poi avrei potuto comportarmi diversamente, esprimermi in un altro modo».
Frammenti di memorie e frammenti ossei, quelli della caviglia traditrice che dopo averlo costretto ad attaccare anzitempo le scarpe al fatidico chiodo, stava per obbligarlo addirittura all’invalidità. Dopo l’addio al Milan e al calcio Van Basten è sull’orlo del baratro. Da tre anni il dolore è insopportabile e il cigno che aveva smesso di volare adesso corre addirittura il rischio di non poter più nemmeno camminare sulle proprie gambe. Ma entra in scena il terzo medico, finalmente quello giusto. Niek Van Dijk, che avrebbe poi aiutato anche Messi, Ronaldo e Ibra. Decide di bloccargli quella caviglia così talmente conciata da sembrare quella di un ottantenne. Marco avrebbe perso un po’ di movimento, ma sarebbe tornato a camminare e soprattutto sarebbe sparito il dolore.
Eppure con quelle caviglie e con la sua testa Van Basten ha gonfiato le reti d’Europa e non solo per più di trecento volte. Il suo aereo incedere ha incantato come pochi. Fin da quel giorno, il 3 aprile del 1982, quando esordì in campionato con l’Ajax, contro il Nijmegen, proprio sostituendo il suo idolo, il suo geniale punto di riferimento da ragazzino Johann Cruijff, segnando subito il suo primo gol.
Nati entrambi per solcare quel verde manto erboso inseguendo e comandando un pallone carico di irripetibile magia. Molto meno per stare in panchina, a consumare stress e a far soffrire il proprio cuore. «A posteriori credo di non essere neanche stato un allenatore così malvagio – confessa Van Basten – , ma mi costava troppa fatica, perché sono troppo esigente con me stesso. C’è una sorta di incrinatura nella mia carriera da allenatore». Il cigno non sapeva stare sul trespolo. Quando gli azzurri hanno vinto il Mondiale nel 2006, anche a lui come a Cruijff nel ’74 la Germania è costata cara e da ct dell’Olanda si è visto cacciar fuori agli ottavi. Stessa sorte agli Europei due anni dopo, uscendo ai quarti.
Oggi Van Basten è sereno, ha tre figli e una consapevolezza in più. «A quei tempi avevo un che di arrogante. Forse sarei diventato un uomo insopportabile se per tutta la vita avessi continuato a vincere e a essere il migliore. Se non avessi mai subito quell’infortunio... Se non sai cosa vuol dire essere infelice, non sai nemmeno cosa vuol dire essere felice».
Marco Van Basten
Fragile
Mondadori. Pagine 356. Euro 20.00