La cantante catanese Marcella Bella (foto di Nima Benati)
A Sanremo, lei non ci va: «Ho mandato un brano, ma non ho ricevuto risposte». In compenso passerà marzo in tour nei teatri italiani, per una rentrée attesa da anni anticipata con un concerto tenutosi qualche giorno fa a Nova Gorica in Slovenia: «La data zero, per testare lo spettacolo». E poi, ciò che più conta specie per lei, è che è tornata a incidere. Con l’album Metà amore metà dolore, prodotto da Mario Biondi, Marcella Bella ha infatti ripreso a far dischi dopo un lustro di silenzio: e molti, ascoltando il cd senza sapere che sia dell’interprete di Montagne verdi, potrebbero addirittura pensare che finalmente arriva un disco sensuale ma raffinato, ballabile eppure mai ammiccante alle mode, con la marcia in più di una voce potente usata però senza strepiti. Perché Marcella, 65 anni di cui 52 passati sul palco, è una presenza artistica e vocale di quelle cui i giovani dovrebbero guardare, distogliendosi dai talent, per capire davvero i ferri del mestiere: quelli che l’artista catanese ha appreso in una lunga gavetta confrontandosi con la versatilità alta di autori quali Bigazzi, Paoli, Calabrese o Tozzi, per tacere di Mogol e del fratello Gianni, uno dei massimi compositori leggeri italiani che come Mogol stesso collabora pure a Metà amore metà dolore. Biondi nel cd ha valorizzato la voce di Marcella fra soul, dance e pop, echi Motown e rimandi all’era di Donna Summer: così che, comprensivo di due remix e della cover di un brano di Bill Withers del ’71 definito icona r’n’b, il disco allinea fiati e ritmiche di fragranza anni ’70 (Non mi basti più), riuscita discomusic (Lovin’ you), sviluppi melodici non banali (Il miracolo dell’amore), sensualità elegante (Dimmi dove vai). E alla fine, come hanno fatto i risultati del Capodanno tv passato fra Al Bano e Dodi Battaglia, o le classifiche delle vendite del 2017 che hanno premiato Mina e Celentano, anche Marcella dunque conferma che son sempre i vecchi leoni quelli che da noi ruggiscono meglio: sarà perché in fondo sanno, come si fa a ruggire…
Fosse andata a Sanremo sarebbe stato il suo nono Festival e magari poteva anche migliorare il suo terzo posto dell’86 (con Senza un briciolo di testa). Invece, niente: è un rammarico?
«Ma no, con o senza Sanremo ciò che conta è che ora finalmente ho un album nuovo, che fra l’altro su vinile è andato a ruba. Sanremo è sempre stato un carrozzone, pieno soprattutto di gente che non si sa cosa ci faccia lì. Diciamo che andarci è un’esperienza da fare, ma non ti dice molto sul destino delle tue proposte. Oggi poi rispetto ai primi che ho fatto ha solo una marcia in più: ti permette di fare promozione radiofonica a tappeto in pochi giorni con emittenti di tutta Italia. E stop».
Però il suo produttore, Mario Biondi, è nel cast…
«E secondo me ha sbagliato, gliel’ho detto! Ma lui aveva il sogno di farlo almeno una volta il Festival. Vedrà, io ricordo come sudava uno come Louis Armstrong…: quel palco spaventa tutti. Terrorizza. Comunque Sanremo pensato da un Baglioni crea grandi aspettative».
Senta, ma da cosa dipende il successo dei cosiddetti grandi vecchi, guardati comprati e seguiti in tour?
«Dipende dalla personalità che si ha. E dalle canzoni che si hanno, belle come non ce ne sono più. Io non li ricordo mica i successi di questi ragazzi dei talent, mentre Felicità la conoscono ancora tutti e anche Montagne verdi, se posso dirlo…».
Che cosa pensa di preciso della musica di oggi?
«Rispetto a un paio d’anni fa pare tornata, la voglia di ascoltare canzoni ben scritte. Solo che il mondo dei cantautori è finito: ce ne sono, ma senza la profondità di un Venditti o proprio di un Baglioni. Per non parlare di Lucio Battisti, poi».
In tv ha duettato con molte giovani: come le giudica?
«Saper stare sul palco è dote che si ha o non si ha: anche mio fratello Gianni andava in panico e aveva molto bisogno della mia disinvoltura accanto. Il punto poi è che queste giovani non fanno gavetta: lei lo sa quante volte agli inizi ho affrontato pubblici che non mi filavano, erano prevenuti, non rispettavano la musica? Per me diventava una sfida: vediamo quante canzoni impiego per avere attenzione. Nei talent non acquisiscono armi per tener vivo un iniziale successo: e serve molta più esperienza per gestirsi nel tempo, che per arrivare in vetta».
C’era vera competizione, fra le dive degli anni ’70?
«C’erano proprio divi, artisti che imponevano look oltre che modi di cantare. Gente come Patty Pravo o Milva era di una caratura che oggi manca».
Ora quanto ha lavorato per questo suo nuovo disco?
«Un anno e mezzo. Contattai Biondi per un duetto (che è nel disco, nda), poi è nata l’idea di farmi guidare da lui per mescolare la sua anima soul col mio pop».
Non è una novità però che lei si misuri con la dance...
«Nessuno mai del ’74 fu la prima canzone in Italia con archi usati in modo ritmico: poi mi hanno sempre voluto riportare al popolare però Nell’aria ancora oggi è in discoteca, anche grazie alla mia scelta di cantarla essendo sensuale e non “sexy” come pretendeva Mogol. Si può ammaliare senza spacchi».
Passione e musica è una dedica a suo fratello Gianni, fermo dall’ictus del 2010. Come sta?
«Non riesce a parlare, gesticola: ma io lo capisco. Di per sé gli vengono ancora idee, però non vuole più sforzarsi. Al lavoro dà la colpa dello stress e della ma-lattia, e con me ha lavorato solo perché sono io».
Cosa perde la musica italiana senza Gianni? E lei?
«La musica, future belle canzoni; io, nulla. Perché quanto ha scritto resta e poi, guardi, perché conta che lui sia qui, fra l’altro sempre sorridente. E sin da quando è uscito dal coma è sempre stato lui a rassicurare tutti noi, me, la moglie e le figlie».