L’11 di aprile del ’90 quando Gennaro Manna fu visto aggirarsi sul lungotevere con una pietra tra le mani e gettarsi nel fiume, ero a piazza Risorgimento in compagnia di Montesanto, diretti entrambi verso un ristorante di via Cola di Rienzo. A darci la tragica notizia furono Luca Desiato e Tano Citeroni, erano increduli, dissero che con difficoltà il corpo del nostro amico era stato pescato dalla polizia fluviale e che un biglietto riesumato da una tasca della giacca diceva «Chiedo scusa a Dio, per questo gesto insano». La frase mi è rimasta impressa nella mente e a distanza di anni ancora mi tocca quando penso a Gennaro abbandonato tra i flutti del Tevere, perché nella sua semplicità disarmante denuncia il dramma nel quale lo scrittore si dibatteva e il dialogo quotidiano che l’uomo aveva con l’eternità e con la morte, così continuamente accarezzata e chiamata in causa nella sua narrativa. Lo avevo conosciuto parecchio tempo prima frequentando gli amici romani e un giorno dell’87 mi ero imbattuto in lui salendo con Paola Brambilla della Bompiani a trovare Ciriaco De Mita a Palazzo del Gesù. La Brambilla voleva convincere il politico democristiano allora in auge, a dettare una biografia e aveva chiesto a me di scriverla. Non ne ero convinto, mi sentivo distante dalle posizioni di De Mita, tuttavia mi era parso interessante andare all’incontro forte di un invito personale e inatteso che il politico mi aveva rivolto la sera del Campiello, ai primi di settembre. Gennaro era seduto dietro una scrivania sul pianerottolo del primo piano, spalle alla finestra, la camicia bianca e la solita mitezza malinconica nel suo levarsi dalla sedia e venire ad abbracciarmi, nel dirmi che stava entrando, con un romanzo di ribellione alla vita borghese di Roma e di non celata ispirazione cristiana, nella famiglia Crovi-Camunia e nell’interrogare i telefoni in cerca di Mastella che allora era segretario particolare di De Mita. Ci aveva accompagnato tra i corridoi ampi e luminosi, si era complimentato con me per quello che andavo scrivendo sul mondo contadino, un mondo del quale anche lui aveva scritto nel saggio
Tramonto della civiltà contadina (1979) e al quale si sentiva profondamente legato in quanto espressione di quel popolo di Cristo che si incontra nei Vangeli, ci aveva consegnato a Mastella ed era tornato alla sua scrivania. Dopo l’incontro con De Mita, ci aveva accompagnato giù, all’androne d’ingresso, rispondendo alla mia richiesta su ciò che stava progettando. Disse che dopo i racconti di
Dispetto e malizia raccolti per una collana di Solfanelli dalla filologa Anna Ventura, stava lavorando a un romanzo 'intimista', ma aveva bisogno di tempo. Il romanzo lo avrebbe consegnato solo a fine ’89 a Raffaele Crovi che gli avrebbe suggerito il titolo
Adamo a Gaeta invece di
Un uomo naturale proposto da Gennaro. Crovi badava a un richiamo commerciale in area campana, mentre il titolo formulato da Manna denunciava la sua ricerca di autenticità, diceva che lo scrittore abruzzese era stufo della vita di maschera che l’atmosfera del sottogoverno gli prospettava ogni giorno. Cercava la vita autentica Gennaro e pensava che stesse nell’abbandono alla natura, nella semplicità, nel silenzio dei panorami campestri, percorsi dal latrato del cane, dal fruscio delle foglie, dal cinguettio degli uccelli, nella ricerca di una serenità quotidiana. La poesia postuma
Tristezza a Getsemani, edita da padre Castelli in
Civiltà Cattolica, è illuminante sulla semplicità della sua scrittura e sull’aspirazione alla vita familiare, al silenzio delle mura domestiche. Manna veniva da un realismo poetico profondo e pregnante, ma fatto a voce bassa, con un vocabolario materno e quotidiano, che Gennaro usava anche quando parlava in pubblico, per rispetto verso gli ascoltatori. Sembra di leggere la pigrizia di Ungaretti, che chiede di essere lasciato in pace, a godersi un Natale fatto di caldo buono e di camino. «Stasera Venerdì santo/ son solo con mia moglie/ che frigge i carciofi/ per la Pasqua che passeremo in famiglia, al gran completo,/ a Gaeta/ nella casetta a vetrate/ che mostra il soffice golfo/ e alla fonda/ la nave ammiraglia/ della Nato». Ancora Gaeta, un rifugio, insieme a Tocco da Casauria, la sua amata Tocco, un paradiso a cui aspirava nel caos di Roma. Ma per cogliere il senso del gesto estremo di Gennaro e la ricerca di autenticità, per capire il fondamento della sua inquietudine, credo sia utile scorrere parte della sua narrativa. Si leggano le ricostruzioni biografiche, seppure mascherate, di intellettuali abruzzesi di grandi qualità umane, Croce, gli Spaventa, realizzate nel romanzo
La casa di Napoli, cui andò il Grinzane Cavour nel 1982 o un romanzo mordace del ’73,
L’abdicazione. Due amici abdicano alla fedeltà agli impegni: uno si rifugia in un atteggiamento rinunciatario e abulico, l’altro precipita nel politicume e nel compromesso. Temi, questi della mistificazione del potere e dell’asservimento della cultura e della fede alla politica più marcia, che torneranno nel ’76 in
Il potere e la maschera. Strapparsi la maschera dal viso, cercare una vita autentica nella fusione con la natura, ritrovare la libertà perduta nell’inganno borghese, questa è l’aspirazione continua dello scrittore. Gennaro non ingerì dei barbiturici, eppure avrebbe potuto, era in cura presso uno psicologo, preferì disperdersi nell’acqua del Tevere, una fusione panica con l’elemento naturale. Quasi un ritorno al liquido amniotico. Ma sentiva anche la bestemmia insita nella rinuncia al dono della vita e della dispersione nella materia, di qui la richiesta di scusa a Dio. Non richiesta di perdono, ma di scusa, come ci si rivolge a un familiare o a un amico, con semplicità disarmante. La semplicità del suo linguaggio e del vocabolario di quel mondo contadino ormai in via di sparizione e a cui non riusciva a rinunciare.