«Se qualche volta/ noti/ che ti guardo/ e nei miei occhi/ e riconosci/ un lampo d’amore,/ non preparare i fucili/ non pensare che sono impazzito;/ nonostante il lampo/ o forse proprio perché c’è/ tu può contare/ su di me». Il testamento umano di Azucena Villaflor è racchiuso nel verso di Mario Benedetti. Lo copiò lei stessa, insieme al resto della poesia «Facciamo un accordo», in diversi fogli e li distribuì alle altre
locas. Le «pazze». Così le chiamavano, non proprio a torto, i militari. Come altro definire quell’esercito di mamme disperate, determinate a combattere la dittatura argentina «a colpi di passi»? Da quasi otto mesi, ogni giovedì pomeriggio, la schiera di donne marciava intorno all’obelisco di Plaza de Mayo con il fazzoletto bianco al posto dell’elmetto e, a mo’ di fucile, le foto dei figli scomparsi.
Desaparecidos.Parola impronunciabile nella Buenos Aires del 1977. Eppure le «pazze» la sbattevano in faccia ai generali proprio di fronte al luogo simbolo del loro potere: la Casa Rosada, affacciata appunto su Plaza de Mayo. Una sfida intollerabile per il regime. Che l’affrontò con il solito «pugno di ferro». Tra l’8 e il 10 dicembre 1977 le attiviste più note furono fatte sparire: Maria Ponce, Esther Ballestrino, Angela Auad, le religiose francesi Léonie Duquet e Alice Demon. E, per ultimo, il volto-simbolo del movimento, passato alla storia come le Madri di Plaza de Mayo: Azucena Villaflor. La stessa donna che, qualche giorno prima, aveva regalato la poesia di Benedetti alle amiche per dire loro: «Potete contare su di me». «E finora ha mantenuto la promessa. Non solo nei confronti delle Madri argentine. Queste ultime hanno 'fatto scuola'. In ogni gruppo di donne che lotta c’è il loro seme e, dunque, il seme di Azucena, mia madre».
Cecilia De Vincenti aveva 15 anni quando la madre fu desaparecida. Da lei ha ereditato il sorriso dolce e la capacità di non arrendersi. A Milano per la Giornata europea dei Giusti, quest’anno dedicata alla resistenza al femminile, Cecilia ribadisce: «Azucena e le Madri hanno dimostrato la forza invincibile delle donne: quando sono capaci di unirsi possono mettere all’angolo anche il nemico più spietato».
Come la dittatura argentina… «Le Madri di Plaza de Mayo, senz’armi, hanno sconfitto moralmente i generali, azzerandone la credibilità agli occhi del mondo. Il regime era consapevole della minaccia rappresentata da queste donne. Per questo ha cercato di distruggerle con l’unico modo che conosceva: la violenza. Le idee, però, non si possono uccidere».
Perché le Madri di Plaza de Mayo hanno fatto scuola? «Prima di quel 30 aprile 1977, quando Azucena ebbe l’idea della prima marcia in Plaza de Mayo, non c’erano movimenti al femminile per i diritti umani. C’erano, sì, proteste isolate. Le Madri sono nate da un sentimento estremo: il dolore lancinante per la perdita di un figlio. Perdita in senso letterale: il ragazzo o la ragazza svanivano nel nulla. Una simile sofferenza rischia di paralizzare l’essere umano».
Invece le Madri hanno trasformato le lacrime in azione positiva per la giustizia. «Perché si sono rese conto che il loro amore, parimenti viscerale, poteva essere più forte del dolore. È stata la relazione con altre donne segnate dalla medesima sofferenza a farglielo scoprire. Le Madri si sono incontrate nel pianto comune nei corridoi dei commissariati dove andavano a cercare i figli. La solidarietà spontanea, pian piano, si è cementata in relazioni di fraternità. Attraverso tale legame l’amore per ogni ragazzo, il proprio, si è moltiplicato per tutte le migliaia di ragazzi scomparsi, dando loro la forza inarrestabile di combattere. Azucena fino all’ultimo non ha mai smesso di cercare mio fratello Néstor. Mentre aspettava di essere torturata dentro la
Escuela Mecánida de la Armada (Esma) dopo il sequestro, però, chiedeva il nome ai giovani prigionieri per poterlo dire alle loro mamme in caso fosse uscita. Altre donne, in seguito, nel tempo e nello spazio, hanno imparato a impiegare tale 'fraternità d’amore' nella battaglia per un mondo più umano».
Chi sono, attualmente, le eredi delle Madri di Plaza de Mayo? «Non un movimento specifico ma ogni gruppo di donne – dalla Siria all’Europa all’America Latina – consapevole del fatto che le lotte per la giustizia non sono mai perse. La sconfitta è restare inermi. Insieme possiamo farcela».
Che sono significa essere una donna «giusta»? «Vuol dire vivere la giustizia ogni giorno. Come ha fatto mia madre e fanno tante, tantissime donne nel mondo».
Qual è il ricordo più forte di sua madre? «L’ultimo in giorno in casa, il 9 dicembre, dopo l’arresto delle altre attiviste. Era addolorata: 'Non so come dirlo a tuo padre', mi disse. In effetti, non riuscì a farlo. La mattina dopo uscì a fare la spesa. E non è più tornata».
A differenza di altri «desaparecidos», lei ha potuto ricostruire gli ultimi giorni di vita di sua madre… «So che fu portata alla Esma, torturata e poi gettata viva da un aereo nel Rio de la Plata. E ogni volta che ci penso sento un dolore straziante. Ma è sempre meglio che non sapere… Ho poi il conforto di aver avuto i resti di mia madre. Il suo corpo, infatti, riaffiorò poco dopo nella spiaggia di Santa Teresita e venne sepolto in segreto dai militari. È stato ritrovato grazie a un testimone molto dopo, nel 2005. Ora mia madre ha due tombe. Le ceneri e metà del suo cuore – in senso metaforico – si trovano sotto l’obelisco di Plaza de Mayo. L’altra metà riposa, però, nell’albero che abbiamo piantato sul sepolcro di mio padre, morto nel 1982.