domenica 15 luglio 2018
Due scienziati hanno fatto un dibattito con un’intelligenza artificiale e il pubblico ha assegnato un pareggio. La tecnologia presto prenderà il comando?
L’intelligenza artificiale risveglia la nostra «vergogna prometeica»?
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intelligenti e umani resistenti Nel giugno scorso si è svolto, in un affollato ufficio della IBM di San Francisco, un appassionante dibattito che ha visto coinvolti due umani, Noa Ovadia e Dan Zafrir, e un’intelligenza artificiale (IA), Project Debater, al cui sviluppo la IBM è impegnata da 6 anni. Il dibattito verteva su due temi: se sia opportuno finanziare la ricerca spaziale, e qui il pubblico ha dato più voti a Ovadia che alla IA; e se sia opportuno incrementare la telemedicina, e qui Project Debater ha battuto Zafrir. Insomma un pareggio, venato tuttavia da sfumature inquietanti: i sistemi di IA svolgono ormai compiti di alto livello, che istintivamente siamo portati a considerare prerogativa degli umani: per esempio trasformare una grande quantità di dati in un’argomentazione persuasiva e comunicarla con efficacia. In entrambe le discussioni di San Francisco, il pubblico ha giudicato l’IA inferiore agli umani sotto il profilo della presentazione, anche per i frequenti inceppamenti e alcune ingenuità, ma superiore per la quantità d’informazioni fornite. La macchina parlava con una suadente voce femminile e con una cadenza naturale, ma difettava di precisione linguistica e di chiarezza argomentativa. Difetti che presto saranno corretti. Insomma l’IA si sta avvicinando a prestazioni che fino a tempi recenti sembravano fantascientifiche. E non si tratta solo del primato ormai consacrato nei giochi, come il poker, gli scacchi e il complicatissimo go: ormai i sistemi di IA stanno dando l’assalto al linguaggio verbale, dove le regole sono molto meno precise, presentano tante eccezioni e lo spazio delle possibilità è enorme, direi quasi infinito, comunque dilatabile a piacere da parte di ogni parlante, che può coniare enunciati nuovi, inauditi. E, a differenza dei giochi, il linguaggio possiede non solo una sintassi ma anche una semantica, che lo fa uscire da sé e lo collega al mondo reale. Prospettive davvero vertiginose: si annunciano 'assistenti' capaci non solo di rispondere a tono a domande di ogni sorta, ma anche di cavarsela nell’ambito vago e indeterminato delle decisioni. Già il Project Debater è capace di elaborare enormi quantità di dati, per esempio milioni di articoli su centinaia di temi, per poi trasformare notizie frammentarie ed eterogenee in ragionamenti scorrevoli e ben strutturati. Esistono già programmi capaci di 'poetare' e di sviluppare trame di romanzi. Di questi progressi è difficile immaginare il termine, e alcuni potrebbero chiedersi che cosa spinga i ricercatori, al di là degli ovvi motivi economici e di concorrenza, a sviluppare sistemi tanto più precisi, potenti e veloci degli esseri umani. Da questo confronto tra uomo e macchina noi usciamo sempre più soggetti a quella che il filosofo Günther Anders, in un libro del 1956, L’uomo è antiquato, ha chiamato «vergogna prometeica»: il senso di avvilimento e sconforto che l’uomo avverte nei confronti dei dispositivi da lui stesso progettati e costruiti che lo superano su tutti i fronti. Spinti da questo divario sempre più ampio, tentiamo di gareggiare con le macchine, e ne usciamo sconfitti e umiliati: chi avrà più il coraggio, o la voglia, di giocare a scacchi contro un programma come Deep Blue? Rinunciamo allora alla lentezza tipica del pensiero maturo e riflessivo per tornare al regime istintivo, veloce e irriflesso, tipico dell’uomo primitivo, che doveva prendere decisioni rapide in vista della propria incolumità di fronte ai pericoli. Come ha messo bene in luce Lamberto Maffei nel suo Elogio della lentezza, il passaggio dal regime rapido dell’intelletto al regime lento è stato alla base dello sviluppo della civiltà, del pensiero astratto e simbolico, dell’arte, della scienza. Oggi lo sviluppo convulso della tecnica, che esige reazioni sempre più rapide, ci spinge a tornare al regime veloce: perdiamo così i frutti del progresso, ci adeguiamo agli artefatti, ci abbassiamo al rango di ingranaggi efficienti e ben oliati della grande macchina tecnologica, che sempre più ci appare dotata di una propria volontà di potenza. Compare qui tutta la differenza tra scienza e tecnologia: la scienza richiede tempo e silenzio, calma e concentrazione. La tecnologia somiglia alla magia: un tocco rapido di bacchetta fa scaturire all’istante le meraviglie più sorprendenti. Già negli anni 1940 il matematico e filosofo Norbert Wiener (l’antesignano della cibernetica) aveva ammonito che una volta uscito dalla bottiglia il genio non avrebbe più voluto rientrarvi, ed esprimeva con ciò il carattere irreversibile di certe innovazioni. E anche oggi molti scienziati eminenti (tra cui il compianto Stephen Hawking) mettono in guardia contro gli sviluppi eccessivi dell’IA. Insomma si tratta di decidere, come ha scritto Francesco Varanini, se vogliamo costruire macchine che pensano (al posto nostro) oppure macchine che ci aiutino a pensare. Per colmare il divario tra noi e i nostri dispositivi, molti ricercatori e «filosofi della tecnica» vagheggiano e auspicano l’avvento di un post-umano contraddistinto da una crescente ibridazione tra uomo e macchina, ibridazione che peraltro è già in atto. Il potenziamento, in particolare cognitivo, degli umani tramite l’artificiale è gravido di conseguenze: le estroflessioni e le introflessioni delle protesi artificiali portano allo sviluppo di un Homo technologicus che ha preso ormai il posto di Homo sapiens. Inoltre lo sviluppo di Internet, che si protende verso un collegamento ecumenico di macchine, esseri umani e cose (la cosiddetta Internet of things) prefigura l’avvento di una Creatura Planetaria, sede di un’intelligenza connettiva di cui ciascuno di noi sarà una particola guidata da algoritmi onnipotenti capaci di eliminare ogni residuo di libero arbitrio e quindi di responsabilità. In questa prospettiva, di cui molti sono inconsapevoli e di cui al contrario bisognerebbe cominciare a preoccuparsi, quale sarà il posto dell’uomo? Anzi: come si potrà definire l’umanità? Dovremo fare i conti con una nuova antropologia, che potrebbe essere molto diversa da quella cui siamo abituati. L’uomo è davvero antiquato? È destinato a naufragare nel mare magnumdelle sue invenzioni? © RIPRODUZIONE RISERVATA Il caso. Due scienziati hanno fatto un dibattito con un’intelligenza artificiale e il pubblico ha assegnato un pareggio. La tecnologia presto prenderà il comando? La sfida si è svolta a San Francisco e ha messo in luce l’elevato livello di perfezionamento raggiunto dai sistemi IA. Il filosofo Günther Anders in “L’uomo è antiquato” aveva previsto tutto e parlò di «vergogna prometeica». Urge una nuova consapevolezza del primato dell’uomo
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