mercoledì 27 ottobre 2010
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Lo scopo finale è risalire alle origini dell’universo. Tornare indietro nel tempo andando sempre più a fondo nello spazio fino a scoprire che cosa successe all’inizio, dopo il gigantesco bang che diede al cosmo la forma che conosciamo. O che crediamo di conoscere. Il primo ad ammettere che la lista dei “non lo so” è ancora lunga è un astrofisico come Riccardo Giacconi che ha passato la vita a osservare e a interpretare i comportamenti delle stelle (sarà il prossimo 29 ottobre al Festival della scienza di Genova, dove riceverà il Grifo d’Oro). Giacconi nel 2002 ha vinto il premio Nobel per la Fisica per aver contribuito alla scoperta delle fonti dei raggi X nel cosmo e oggi, a 79 anni, se la recessione non gli avesse tagliato le risorse, «scandaglierebbe la volta celeste molto, molto in profondità alla ricerca di come si sono formati i grappoli di galassie». Lo farebbe negli Stati Uniti, naturalmente, dove vive da più di mezzo secolo e dove fare ricerca, anche con la crisi, è sempre possibile, a differenza dell’Italia. Ma andiamo con ordine.Professor Giacconi, lei è arrivato negli Usa nel 1956 con una borsa di studio. È stato facile ricominciare?«Facilissimo. Avevo ricevuto una buona preparazione, e ho trovato subito lavoro nelle università, inizialmente a Princeton, e poi nel privato, e in entrambi i settori sono stato incoraggiato a fare ricerca. Cominciai a occuparmi di raggi X nello spazio nel 1959, quando lavoravo per una piccola società vicina a Washington (la As&E). Mi dissero di fare esperimenti nello spazio e decisi di cercare altre stelle, più lontane del sole, che emettessero raggi X. Ma mi fu subito chiaro che mi servivano strumenti più sensibili di quelli che avevo. L’idea di un telescopio a raggi X mi venne subito, ma non fu facile realizzarlo. Ci misi più di 15 anni. Ma dalla fine degli anni ’70 in avanti tutte le principali osservazioni dello spazio sono state fatte con telescopi a raggi X».Ci spiega che cosa fa?«La maggior parte delle informazioni che ci arrivano dall’universo sono nella forma di onde elettromagnetiche, vale a dire luce, in vari colori: lunghe e corte, ottiche e ultraviolette, raggi X e raggi gamma. La maggior parte dell’osservazione del cosmo è sempre stata fatta osservando la luce visibile con telescopi ottici. È solo dopo la seconda guerra mondiale che è stato scoperto che il sole emetteva raggi X. Un’altra osservazione importante che facemmo fin dall’inizio fu che lo spazio fra le galassie è pieno di gas, di elettroni e di positroni. Tutta materia ad alta temperatura che emette raggi X. La maggior parte della materia che compone l’universo può essere misurata in raggi X».Qual è la sfida maggiore dell’osservazione astrofisica oggi?«Scoprire la differenza fra la materia “normale” e il resto. Di tutta la materia che compone l’universo solo il 3 per cento è come quella che vediamo sulla Terra, fatta di atomi composti di protoni, elettroni e neutroni. Del resto, il 27 per cento è materia oscura e circa il 70 per cento energia oscura. Cosa siano non lo sappiamo, ne conosciamo solo gli effetti. La materia oscura mantiene le galassie integre e l’energia oscura fa espandere l’universo. Questo è il lavoro più grande per chiunque in astronomia. Ha a che fare con quello che è successo dopo il Big bang, come si sono formati i buchi neri, le origini dell’universo. In base a quello che sappiamo l’universo continuerà ad espandersi all’infinito. Comincerà a fare molto freddo, a un certo punto».Di fronte a queste frontiere viene da chiedersi quale sia il posto dell’uomo, particella infinitesimale nell’universo. Se lo chiede anche un astrofisico?«È una domanda che ci poniamo noi, perchè abbiamo il pregiudizio di voler trovare significato nella nostra esistenza nel cosmo. La vera domanda è dove ci porteranno queste ricerche. Mi spiego. Circa 400 anni fa, le scoperte di Galileo, Copernico e Newton hanno creato le premesse per la rivoluzione industriale. Bisogna chiedersi quale progresso scaturirà dalla ricerca dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo. C’è poi la domanda se forme di vita come la nostra esistano nell’universo… Sappiamo già che le condizioni esistono altrove. Non sarei sorpreso se trovassimo organismi viventi su altri pianeti. La domanda a questo punto riguarda l’esistenza di forme di vita consapevoli. E qui la risposta per ora è imprevedibile».E arriviamo alla ricerca in Italia. Oggi crede che sia possibile fare questo tipo di studi in Italia?«No, ma il problema non è della ricerca, è dell’Italia. In Italia non c’è ancora stato il tipo di evoluzione che si è verificato nel resto dell’Europa occidentale e negli Stati Uniti, dove le persone avanzano in base a capacità e buona volontà, e dove le capacità vengono riconosciute e incoraggiate. L’unico ambito in cui in Italia questo meccanismo funziona è quella della piccola impresa in cui i proprietari mettono a frutto la loro ingegnosità. Gli italiani sono ingegnosi, ma nelle società private, nell’università o nel settore pubblico non lo si riconosce». Di qui la fuga di cervelli.«Per fortuna, verrebbe da dire, i giovani se ne vanno. Tutti gli italiani che hanno ricevuto un premio Nobel lo hanno avuto per lavoro fatto all’estero. Non sono intelligenza o ambizione che mancano. È che il sistema politico ed economico non lasciano spazio per respirare. Credo che il cambiamento non avverrà rapidamente». Va meglio negli Usa?«Qui i problemi di finanziamenti per la ricerca sono dovuti alla recessione. Non appena l’economia si riprenderà, la ricerca ripartirà con forza».
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