Sembrava Natale ieri a Bologna nella centralissima via D’Azeglio. Appena imboccata, sentivi i muri delle case cantare Lucio Dalla. Da quando è morto, tre anni fa, alle sei di sera ogni giorno dagli altoparlanti esce la sua voce con
Anna e Marco, L’anno che verrà, Futura e altri 40 anni di storie sue e nostre. Stavolta però quei muri si sono messi a cantare fin dalla mattina. La Fondazione Lucio Dalla ieri, oggi e domani ha deciso di aprire la Casa di Lucio. Così i bolognesi possono ricambiare il loro cantore entrando a casa sua, dopo che lui è entrato nelle loro per una vita. Sguardi all’insù, attorno, ovunque, in religioso silenzio. Quadri a tappezzare ogni centimetro di parete, soffitti affrescati, sculture, libri, statue, pezzi di antiquariato, giocattoli d’epoca, immagini sacre, dischi d’oro e di platino, foto a gogò, strumenti, tappeti, ritratti, colonne e preziosi soppalchi lignei. Il vecchio e il nuovo tra Ottocento russo, transavanguardia italiana, Madonne con Gesù Bambino e singolari presepi. Come quello che accoglie gli ospiti all’ingresso: «Per la Casa di Lucio la vostra bussola sarà questo presepe» si legge. È davvero come una Natività con pastori e Magi la dimora di Dalla, perché è presente tutta l’umanità, la stessa che ha cantato, dal gemito dell’Operaio
Gerolamo agli acuti di
Caruso. Ieri mattina le lezioni hanno tenuto lontano i più giovani, tranne gli allievi della scuola di teatro di Bologna «Galante Garrone» che accoglievano gli ospiti sussurando i testi delle canzoni di Dalla. «Questi testi sono formidabili anche senza musica. Penso sia ora di insegnarli nelle scuole, nell’ora di italiano – dice il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, dopo aver letto
Il parco della luna –. C’è una schiera di cantautori, come Dalla, De Andrè, Guccini, De Gregori o Conte, che ha formato e trasmesso valori a generazioni intere e fanno parte della letteratura italiana. Ne parlerò con il ministro dell’Istruzione». Dall’altro politico della mattinata, il sindaco di Bologna Virginio Merola, arriva invece la promessa del sostegno al progetto di fare, della futura sede della Fondazione Dalla, una casa-museo. Dalla parole («La musica di Lucio è utile al cuore, fa pensare e accende la fantasia» dice Walter Veltroni, intervenuto nel pomeriggio assieme a Giovanna Melandri) alla musica, quando entra in scena da una porta secondaria Arbore con il suo clarinetto unendosi, sulle note di
I can’t give you anything but love, agli ex compagni di Lucio quando suonava nei primi anni Sessanta nella Rheno Dixieland Band. È il primo dei momenti forti della storica giornata dalliana. «Penso che a Lucio, che ci sta guardando da lassù, faccia piacere questa condivisione – dice –. Dalle meraviglie che ha collezionato si capisce ancora di più il personaggio e la cultura che aveva, perché questi oggetti sono la proiezione dei suoi interessi». Su un enorme tavolo di cristallo due clarinetti di Lucio nelle loro custodie («uno è simile al mio, ce li regalò l’artigiano che li costruì per noi») e, tra le altre, foto di Dalla con papa Wojtyla e con papa Ratzinger. E così, dopo che nella sala Caruso (Lucio ha dato un nome a ogni stanza, c’è anche quella dello Scemo con un maxischermo per i film e le partite del Bologna da vedere con gli amici) si spegnevano i riverberi di un corale e commovente
Te voglio bene assaje con cui Morandi, Curreri, Arbore, Haber, Merola, Franceschini e la gente ringraziavano Lucio, qualcuno riusciva a intravedere Dalla imboccare via D’Azeglio, svoltare in via Marsili ed entrare di soppiatto in San Domenico, il suo
Convento di pianura, dove l’uomo muore colpito alla schiena per liberare l’anima. «Veniva sempre qui Lucio – ci racconta
frate Bernardo Boschi, amico e confessore –, fin da ragazzo. A Messa cercava di non farsi vedere per non distrarre dalla funzione. A volte si ritirava con noi domenicani, aveva una sua cella e si fermava qui anche due o tre giorni a meditare e pregare. Quante volte mi ha detto che voleva venire in Terrasanta con me. Lucio aveva una grande sete di spiritualità, anche se era un cane sciolto. Cantava la profondità del mare, le rondini, gli angeli. Si sentiva la presenza di Dio nelle sue canzoni». E proprio in
Canzoni inserì due tracce nascoste, le sue due anime, da amante di tutta la vita. Una rivisitazione di
Disperato erotico stomp e a seguire, come un desiderio di redenzione finale, il canto liturgico
Vieni spirito di Cristo. «Lo sentì cantare qui in Basilica da un giovane frate e volle registrarlo. Si era commosso fino alle lacrime».