Il nome con cui è più noto gli venne dalla regione dove era nato, la Lorena. Claude Lorrain, di cognome faceva Gellée e i francesi, orgogliosamente, lo nominano così, aggiungendo «dit le Lorrain». Ma quelli che in lui vedono una sorta di mito, lo chiamano semplicemente Claude. Quando ti chiamano col tuo nome, è segno che sei entrato tra i grandi, che sei talmente chiaro e alla luce del sole, che il tuo nome dice un modo di dipingere. L’orgoglio, giustissimo, che i francesi hanno di Claude Gellée, massimo paesaggista francese (e non solo) dell’epoca barocca, è anche un modo per riportarlo all’ovile, essendo il lorenese vissuto in gran parte a Roma, dove, nei primi anni del terzo decennio del Seicento, arrivò lavorando, all’inizio, come pasticcere per sbarcare il lunario.Dei suoi inizi, in realtà, si conosce poco; per cui, essendo la Lorena terra di pasticceri, si è montata su un po’ di leggenda; e poi c’è quell’altra storia della sua assunzione come domestico in casa di Agostino Tassi, il pittore processato nel 1611 per lo stupro di Artemisia Gentileschi, dove probabilmente imparò alcune cose di pittura. La sua biografia lo segnala per un certo periodo a Napoli dove si cimenta con la pittura di paesaggio frequentando un paesaggista tedesco, Gottfried Wals. Torna in Lorena per un breve periodo, ma nel 1627 è di nuovo a Roma, e si sistema in Piazza di Spagna, dove trascorrerà gran parte della vita. «Il disegnatore davanti alla natura», recita il sottotitolo della bellissima mostra di disegni che il Louvre dedica ora al suo illustre pittore che, nel paesaggio, dà filo da torcere a Poussin, il mito assoluto dei francesi.I curatori della mostra, Carel van Tuyll van Serooskerken e Michiel Plomp, ricordano che dopo la grande mostra del Lorrain di quasi trent’anni fa, mancava un approfondimento sulle sue qualità di sublime disegnatore. C’era stata, per gli americani, cinque anni fa una mostra del Lorrain «pittoredisegnatore», ma mancava qualcosa del genere per l’Europa. Unendo due cospicui nuclei collezionistici, quello del Louvre e quello del Museo Teyler, si colma adesso la lacuna. Se è vero, come scrive nel catalogo Van Tuyll, che il tema figurativo del pittore ritratto dentro il paesaggio è una sorta di dichiarazione di poetica – non la rappresentazione di un luogo reale, ma una invenzione della mente come certi orizzonti dello stesso Lorrain –, si deve dire anche che niente è più astratto, pittoricamente parlando, di un paesaggio. È la rappresentazione dell’impalpabile, la luce e l’ombra, la chiarità dell’aria, il movimento delle foglie o, ancora, lo scorrere dell’acqua. Può darsi che al pittore interessino certe forme, certi colori, certe luci; oppure che voglia fermare sulla tela le sensazioni provate full immersion nella natura; o ancora, che nella natura veda quel 'tutto' che lo richiama al tema dell’origine, alla ciclicità del tempo, al comporsi dei quattro elementi; o, infine, che nel paesaggio l’artista scopra le proprie profondità interiori, il riflesso della propria psiche. Tutto questo può stare dentro il paesaggismo di Lorrain. Ma in Lorrain si coglie anche una sorta di «indifferenza », di imperturbabilità della natura, che nel disegno emerge con più chiarezza che nella pittura. O meglio: il disegno in Lorrain gode di una sorprendente autonomia, potrebbe venire prima del quadro, ma potrebbe anche essere il distillato mentale di una sensazione che ha già trovato nel quadro una espressione, ma è ancora alla ricerca della propria purificazione ideale, quel limite classico dopo il quale si può dire: ecco, niente da aggiungere o da togliere senza rovinare le bellezza dell’opera. Possono essere certi disegni a inchiostri acquarellati dove un bosco si rivela per grandi macchie scure sulle quali fiorisce un segno raffinatissimo, di gusto quasi orientale per come sembra giocare sulla sottrazione anziché sulla saturazione dello spazio.E così torniamo al discorso iniziale. Può darsi che Lorrain abbia rappresentato se stesso, oppure un amico, nel
Paesaggio roccioso con un disegnatore vicino a un ruscello del 1635: l’artista è seduto su una roccia, al margine sinistro del foglio, si trova accanto a un albero e indossa un grande cappello con un bordo ampio. La sua figura quasi si confonde nel paesaggio, come se Lorrain lo immaginasse testimone muto del fluire lento e continuo della natura; anzi, come se quell’artista rappresentasse la coscienza che incide sulla carta la memoria di qualcosa che non conosce la nozione di tempo (è realtà ferma e mutevole, rocciosa e morbida, come nel disegno acquarellato del
Disegnatore davanti alla Grotta di Nettuno a Tivoli). La natura scorre, ininterrotta e senza vere discontinuità, mentre i disastri naturali assumono per noi la qualità di una «catastrofe» solo perché la nostra mente elabora quegli eventi come forme di discontinuità nell’ordine che abbiamo cercato di imporre alla natura col nostro mondo artificiale. L’artista, invece, tende a «unirsi» alla natura, il suo sguardo ritesse l’unità del mondo come se quella stessa discontinuità che l’uomo rappresenta (in quanto portatore di storia, di pensieri, di nuove creazioni) potesse sciogliersi nelle strutture visive che la mente amalgama organizzando segni e macchie, ombre e luci dentro un «ideale».Per Lorrain la metamorfosi è una cristallizzazione morbida, una sorta di fluidità prospettica egli aveva meditato su maestri come Paul Bril e Wals, frequentando l’ambiente dei pittori stranieri, i paesaggisti fiamminghi, Poelenburch, Breenbergh e van Swanevelt, di cui in mostra sono presentati alcuni disegni; ma Lorrain dà l’impressione di volersi connotare con uno stile che decanta, approfondisce, rende, via via, lo spazio forma diafana che si carica di sfumature, riflessi, ombre che durano un istante, ma sono, sul foglio dell’artista, fermati per sempre. Alla fine prevale una luce filtrante, che rende le cose naturali come in una radiografia, o in una sinopia; il mondo all’aperto e la campagna romana, assumono in alcuni disegni quasi la trasparenza di un vetro. Questa è la grande alchimia del lorenese, che, figlio del Seicento, il secolo di Cartesio e di Pascal, porta quella visione cristallina a una reintegrazione con la pittura che modula i piani visivi lasciando che trapassino l’uno nell’altro grazie a una scienza dei toni che, nelle prove più belle, arriva quasi a non farci più sentire il segno grafico che 'brucia' la carta. Diventando, dunque, pittura disegnata.
Parigi, LouvreCLAUDE GELLÉE, DIT LE LORRAINFino al 18 luglio