Raramente perdo tempo a chiedermi perché gli altri non apprezzano i miei autori preferiti. Elsa Morante, Thomas Bernhard, Carlo Emilio Gadda, sono tutti scrittori talmente eccentrici che non è una sorpresa se qualcuno non li sopporta. D’altro canto, però, passo ore e ore a rimuginare sul mistero di chi invece piace alla gente. E continua a riaffacciarsi la stessa domanda: Ma come è possibile? Non sto parlando di letteratura di genere, le cui attrattive sono ovvie. Ma che dire di Haruki Murakami e simili? O Salman Rushdie? O magari Jonathan Franzen? Sono scrittori di grande successo. Senza dubbio competenti. Solo che non mi dicono nulla. O pensiamo a Elena Ferrante. Da mesi tutti mi dicono che devo leggere Elena Ferrante. Eppure ogni volta che mi ritrovo in mano un suo romanzo finisco per mollarlo dopo poche pagine. Mi dà sempre l’impressione di un congegno volutamente teatrale, che ostenta la propria napoletanità. Un esempio? Ecco una lite tra vicine in
L’amica geniale: «Così, di dispetto in dispetto, le due donne cominciarono a prendersi a male parole se solo si incrociavano per strada o per le scale, suoni duri, feroci. Fu da quel momento che cominciarono a farmi paura. Una delle tante scene terribili della mia infanzia ha inizio con le urla di Melina e di Lidia, con gli insulti che si lanciano dalle finestre e poi sulle scale»; continua quindi con «mia madre che si precipita alla porta di casa, l’apre e si affaccia sul pianerottolo seguita da noi bambini»; e finisce con l’immagine, per me ancora oggi insopportabile, delle due vicine che rotolano avvinte giù per le scale e «la testa di Melina sbatte sul pavimento del pianerottolo, a pochi centimetri dalle mie scarpe, come un melone bianco che ti è scappato di mano». Che dire? Senza alcuno sforzo di fantasia, Ferrante si limita a proclamare un melodramma generico: «suoni duri, feroci»; «Una delle tante scene terribili della mia infanzia». Gli insulti ovviamente «si lanciano». Il ricordo è «ancora oggi insopportabile», sebbene nelle pagine successive l’incidente venga rapidamente dimenticato. Come in un film di serie B, la testa di qualcuno colpisce il pavimento a pochi centimetri dalle scarpe della protagonista: «Come un melone bianco che ti è scappato di mano». Non ricordo di aver mai fatto cadere un melone, ma sono piuttosto certo che il tonfo sordo del morbido frutto che colpisce il pavimento sarà ben diverso dallo schianto di un cranio e dalla visione di un volto insanguinato. Mi sorprende che una scrittura tanto mesta non irriti nessuno, a parte me. Ecco il punto: nutro costantemente il sospetto che gli altri lettori si lascino raggirare. Perché sono tanto generosi? Solo che… appena elaboro il mio stupore, subito mi coglie un senso di insicurezza. È davvero possibile che tante persone intelligenti non abbiano capito nulla? Sono forse un irriducibile elitista? D’altro canto, ci sono momenti in cui un libro riesce a vincere questi sospetti e a convincermi che sto leggendo qualcosa di più che un’operazione letteraria attentamente congegnata. Ricordo la prima volta che mi sono imbattuto nelle novelle di Verga, in Svevo o in Pavese, o tra gli autori contemporanei nello svizzero Peter Stamm, J.M. Coetzee o Lydia Davis. Allora sono stato lieto di non aver perso troppo tempo con i meloni bianchi. Ma come la mettiamo con quest’incertezza? Forse invece di interrogarsi sulla credulità altrui o i propri pregiudizi, varrebbe la pena di soffermarsi proprio sull’incomprensione: un’incomprensione reciproca, insormontabile, tra persone cresciute nella stessa tradizione culturale. Il buonismo che imperversa nel mondo culturale osanna la letteratura come mezzo per abbattere le barriere e promuovere la comprensione? Eppure è proprio dalla mia reazione ai libri che scopro di non essere affatto in sintonia con gli altri. Che sia questa allora una delle funzioni della narrativa: renderci consapevoli delle nostre differenze? Non quel coro celebrativo di superficie che l’editoria, i festival e gli innumerevoli premi letterari cercano costantemente di alimentare. Ma l’acceso dibattito che precede l’assegnazione di un premio. Vista così, la nostra reazione alla letteratura diventa un atto di continua scoperta di sé. Leggendo opinioni altrui su Walter Siti o Sandro Veronesi e paragonandole alle mie, mi faccio un’idea di chi siamo e di come la pensiamo sia io che loro. Talvolta questa consapevolezza si rivela di gran lunga più interessante della stessa lettura del libro.