Il cantautore milanese Gino De Crescenzo, in arte Pacifico / Daniele Coricciati
Esce il nuovo struggente album del cantautore tra inquietudine esistenziale e compassione «Il mio disco di attenzioni da figlio a genitore» Una boccata di ossigeno, in tempi di asfittico mainstream sonoro. C’è chi sempre più produce a ritmo di fabbrica suoni sfornati da discografiche presse industriali e c’è chi cesella poesie musicali alla saggia velocità di presidenziali settennati. Ma bisogna chiamarsi Pacifico per poter mirare così in alto da riuscire a lanciare nell’etere, sette anni dopo l’ultimo album Una voce non basta, un assoluto capolavoro come il nuovo Bastasse il cielo. Dieci canzoni volate per mesi da un continente all’altro grazie a Cloud e alla tecnologia, ma atterrate via via quasi ogni giorno tra le mani di uno stuolo di grandi musicisti internazionali per terminare la corsa nel capolinea dello studio di Pacifico a Parigi, dove Gino De Crescenzo (vero nome del cantautore milanese, che proprio oggi festeggia 55 anni) vive da alcuni anni con la compagna e il figlio Thomas. E da dove confeziona successi per altre grandi popstar, da Gianna Nannini a Gianni Morandi, da Celentano a Bocelli a Venditti. Dieci le tracce del nuovo album (in uscita l’8 marzo con la partenza del tour dal teatro Filarmonico di Piove di Sacco, vicino a Padova, per poi toccare Bologna, Torino, Firenze, Milano, Bari e Roma), dall’omonima struggente title track alla profonda e “filosofica” Quello che so dell’amore, passando per poetici gioielli come Il destino di tutti («Io come padre ci provo e ci provo e non so come fare / A cercar di cambiare ogni giorno / Ogni giorno a lasciarmi cambiare») e i quattro brani già presentati a dicembre live e nell’ep ElectroPo tra cui la esistenziale Molecole e la più pop Sarà come abbracciarsi.
Pacifico, un disco tanto personale quanto collettivo. Com’è riuscito nello stesso tempo a farne una sorta di ideale sintesi di sé con così tanti apporti artistici?
Il risultato stupisce me per primo. Il disco ha davvero vissuto due decisive tappe: una parte solitaria nel mio studiolo a Parigi e una con il produttore Alberto Fabris. Lui ha una rubrica unica al mondo, con artisti di ogni sorta che a contattarli con un qualsiasi management sarei stato in ballo sei mesi. Invece sono suoi amici e hanno arricchito con i loro contributi strumentali ognuno dei dieci brani. L’impresa è stata tenere insieme questa sorta di orchestra di big sparpagliata tra Italia, Stati Uniti, Turchia, India e Inghilterra dove le canzoni sono transitate per essere ascoltate, manipolate e rimandate al mittente con una nuova pelle. Il tutto mentre Fabris era in tournée mondiale con Ludovico Einaudi. E io a Parigi a fare da terminale.
Eppure all’ascolto si avverte la meticolosità di una unica chiara regia.
È vero. Fino all’ultimo temevo che ne sarebbe uscito un puzzle, invece il disco ha una sorprendente uniformità, anche grazie a Tim Oliver (ha un curriculum pazzesco, dagli U2 a Brian Eno) che ha mixato il tutto negli studi di Peter Gabriel al Real World di Bath, in Gran Bretagna. Con Fabris, conosciuto ai miei inizi da solista al festival Musicultura, avevo invece fatto in passato soltanto concerti.
Concerti al via il giorno stesso dell’uscita del disco: come saranno?
Nello spettacolo che sto preparando mi ritaglio degli spazi anche per qualche monologo. È il mio stile, raccontare le ispirazioni delle canzoni, la loro genesi, gli spunti e le situazioni che mi hanno fatto nascere un certo testo.
Testi in cui al centro ci sono spesso i suoi sguardi sulle piccole cose, sui dettagli.
Un mio limite, che però è la mia prerogativa. Io non ho uno sguardo politico o ampio sul mondo e sugli avvenimenti, sulla folla, sul tempo. Non riesco a guardare avanti o a inquadrare l’epoca che viviamo o una ipotetica società futura. Mi fermo al mondo piccolo, a un mio microcosmo. Non ho un binocolo, ma solo un microscopio, però abbastanza fedele e capace di registrare tante cose. Certo, ho provato anche a scrivere testi con un taglio di osservazione sociale, ma non mi ci ritrovo. Sono per le piccole cose contenute in un cassetto. Lì c’è un altro mondo.
Come canta in Salto all’indietro.
Lì c’è una raccolta di dettagli e piccole cose che ho visto da ragazzino a oggi. L’ho scritta ora che si è riavviato in me il film dell’infanzia attraverso mio figlio. Mi è stata data un’altra telecamera e mi sono reso conto che anche lui sta raccogliendo tutta una serie di dettagli alla ricerca di certezze, mentre invece si accorgerà che a connotare noi esseri umani è un incolmabile vuoto. Questa assenza o fragilità me la ritrovo in tutte le canzoni. Ce n’è una intitolata proprio Canzone fragile.
E cosa si percepisce in questo vuoto?
Che quaggiù Dio è un’assenza. E in questo modo ne capisco di più l’essenza. Noi siamo condannati a dare spiegazione a tut- to, ma ci troviamo circondati da cose che non abbiamo fatto noi. Nel tentativo di dare spiegazione a tutto sperimentiamo un vuoto. È questo sentirmi minuscolo e disperso a commuovermi, anche perché vedo tutti avere a che fare con la fragilità.
Come canta proprio in Bastasse il cielo...
La preghiera serve ad affrontare il dolore e non ad evitarlo, ma l’ho capito di più crescendo. Ho la sensazione che aiuti a tenere a bada il Diavolo, il male che senti dentro, la voglia di sopraffare gli altri. È questa la necessità, soprattutto in una comunità di persone. I social purtroppo, di questo sentimento, sono promotori e amplificatori.
Due canzoni dell’album iniziano con “madre”...
Mia madre è ancora vivente, ha 85 anni, donna molto fiera. In Semplicemente dico che “la paura aspetta i bambini da grandi”. Ricordo qui mia madre in ospedale. Io all’epoca però ero inconsapevole, andavo semplicemente a trovarla. Ora la vedo sotto coni di luce mentre cerca ancora di cucire usando l’occhio meno compromesso.
Genitori e figli, figli poi genitori...
È il senso della vita. Direi che questo mio lavoro è un disco di attenzioni e di gentilezza. Con una serie di canzoni che definirei notturne. Figlie dei miei quotidiani appunti con carta e penna. E dei miei sguardi.