venerdì 23 aprile 2010
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Quando esattamente 20 anni fa, il 24 aprile del 1990, lo Shuttle Discovery portava in orbita attorno alla terra il Telescopio Spaziale Hubble (Hst), un riflettore Ritchey-Chrétien di circa 2,4 metri di diametro, corredato da sofisticati rivelatori progettati per la radiazione visibile, l’ultravioletto e il vicino infrarosso, un progetto realizzato congiuntamente dalla agenzia spaziale americana Nasa e dalla europea Esa, il rapporto fra imprese spaziali e grande pubblico avrebbe conosciuto una nuova stagione. Stava per accadere qualcosa di probabilmente inaspettato anche da coloro che vi avevano lavorato a lungo (va ricordato in proposito che la progettazione e la costruzione del telescopio erano durate quasi vent’anni). Questa volta non erano uomini a mettere piede su altri mondi, né si raccoglievano reperti da riportare come preziosi cimeli nei laboratori terrestri. Hubble avrebbe soltanto visto, fotografato, misurato, cose che non si potevano toccare né modificare o estrarre, ma solo contemplare, in accordo con l’originaria e più profonda vocazione dell’astronomia, quella di osservare e di catturare solo con lo sguardo, ora occhi elettronici e sofisticati, ciò che l’uomo non poteva (e assai probabilmente non potrà mai) raggiungere. Eppure questa silenziosa contemplazione, che cominciava a giungere sotto forma di immagini a colori della Wide-Field Camera e dall’Imaging Spectrograph sarebbe stata destinata a generare negli umani un allargamento di orizzonti ben più entusiasmante di una conquista materiale, quello della conquista di una nuova e più profonda conoscenza.La bellezza delle immagini catturate da Hubble ci ha regalato quel supplemento di contemplazione al quale non eravamo più abituati da tempo. Il cielo stellato che purtroppo non riusciamo quasi più a vedere dai luoghi della nostra esistenza quotidiana è stato di colpo squarciato da sguardi profondi che si spingevano fino a qualche miliardo di anni luce dalla terra, ovvero fino ad una frazione significativa dell’età del nostro universo; o almeno di quella che siamo abituati a chiamare la sua età anagrafica, poiché il suo periodo di gestazione nel seno della creazione, quel seno di fronte del quale le nostre leggi scientifiche si fermano, quasi in adorazione riverente, non potendole più rappresentare né formulare in modo consistente con i dati sperimentali, ci sono ancora (e forse per sempre ci saranno) precluse da tempi e lunghezze che portano il nome di Max Planck. Ad evocare la dimensione mistica che le osservazioni di Hubble parevano trarre con sé sono stati gli stessi titoli posti dagli astronomi alle immagini più suggestive, come i Pillars of Creation, i «pilastri della creazione» appunto, nome con il quale sono state battezzate le grandi nebulose che si ergono a forma di colonna, adesso ben visibili nella costellazione dell’Aquila.Gli sguardi di stupore che solo pochi astronomi o il limitato numero di coloro che venivano raggiunti dalla divulgazione scientifica potevano dirigere verso questi oggetti, e a risoluzioni ben più basse, una divulgazione spesso affidata fino agli anni ’80 del secolo scorso alle ben note diapositive di celluloide, venivano nell’era del telescopio Hubble moltiplicati e messi a disposizione di centinaia di milioni, di miliardi di occhi umani. Prendeva così corpo una sorta di sessione perpetua di divulgazione scientifica, quella alla quale ciascuno poteva facilmente accedere attraverso le immagini dell’Hubble Heritage o degli altri programmi di presentazione e archiviazione offerti alla comunità internazionale, intelligentemente corredate da didascalie e informazioni didattiche alla portata di tutti. Ad esserne arricchito non è stato solo il mondo della scuola e dell’educazione, ma anche il mondo dell’arte, della pittura, della musica, della fotografia e perfino della poesia, come mostrato dagli stessi siti collegati con lo Hst. Un successo anche dal punto di vista della comunicazione mediatica, come messo in luce da molti analisti del settore, che hanno registrato la pertinenza e la professionalità con la quale lo Space Telescope Science Institute ha gestito la trasmissione dei risultati di Hubble e di quanto atteneva alla sua riparazione e manutenzione, causando un progressivo affezionarsi del grande pubblico verso quanto stava accadendo a quel nuovo enorme occhio collocato a 575 chilometri dalla superficie della terra, capace di giungere enormemente più lontano nello spazio. Di fatto Hubble è diventato il nostro sguardo. In sostanza, eravamo, e siamo stati tutti, in orbita con lo Space Telescope.
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