Lo scrittore Eraldo Affinati in una classe durante il programma «Italiani anche noi» su Tv 2000
Un paio d’anni fa quando Monica Mondo mi propose di raccontare in televisione le Penny Wirton, all’inizio ero esitante. Io e mia moglie, Anna Luce Lenzi, fondatori di queste scuole di insegnamento della lingua italiana agli immigrati, uno a uno, senza voti e senza burocrazie, che prendono il nome da un romanzo di Silvio D’Arzo, non ci sentivamo pronti per misurarci col piccolo schermo. Ci è venuto in aiuto don Lorenzo Milani: «Il sapere serve solo per darlo». Il Priore di Barbiana è diventato allora la guida ideale. Le sue frasi ancora profetiche, nel sogno di un’altra scuola, che scandiscono il programma, appaiono alternate a citazioni di grandi scrittori della nostra letteratura, come se queste e quelle fossero il tetto della casa spirituale che accoglie gli immigrati. E poi forse sono stati proprio loro, i tanti allievi e volontari sparsi lungo lo Stivale, a darci la spinta ulteriore per metterci in gioco. Sentivamo l’urgenza di far conoscere un’altra Italia: quella di chi lavora a fondo perduto senza pensare al risultato che potrà ottenere ma avendo fede nell’azione in cui crede. Anziani pensionati desiderosi di donare la loro esperienza e giovani liceali che fanno il tirocinio formativo: ognuno con un carattere, sensibilità e motivazione diversa, posti di fronte a profughi africani, arabi, slavi e orientali, spesso analfabeti nella lingua madre; persone che non hanno mai tenuto una penna in mano. E così, grazie all’intuizione preziosa di Paolo Ruffini, direttore dei programmi di Tv 2000, siamo partiti per questo viaggio in dieci tappe intitolato Italiani anche noi. Si tratta di una trasmissione che si propone di svolgere un compito umano ancora irrisolto non solo nel nostro Paese ma anche in Europa: favorire il confronto, trovare azioni comuni, regalando il sorriso insieme al servizio. Dove, se non nella lingua italiana, possiamo fare questo? Nella prima puntata (in onda domani sera alle 19.30), vedremo Bandjugul, un omone con lo sguardo di bambino, che nel suo villaggio natale non era mai andato a scuola e adesso la sogna per i figli ancora lontani.
A Viterbo saranno di scena i cosiddetti «ragazzi speciali» che, vicino alle giovani nigeriane, presentano due fragilità: una si prende cura dell’altra. A Trebisacce, nella Calabria remota, parleremo del valore dell’amicizia come risposta alle mafie e alla sopraffazione. A Lucca, sullo sfondo del manicomio dove Mario Tobino ambientò Le libere donne di Magliano, sarà proprio Isabella, nipote del grande scrittore, ad accompagnare i migranti nelle chiese accanto alla celebre cinta. La puntata girata a Forlì, in particolare, è stata molto significativa: la sede di quella Penny Wirton si trova infatti al Centro della Pace di Via Anderlini, la strada dove, ricoverata in un centro anziani, vive Antonia Laghi, la donna che durante la Seconda guerra mondiale gettò dei papaveri rossi sul cadavere di mio nonno, partigiano romagnolo fucilato dai nazisti. Quando mi sono reso conto di tale prossimità, ho avuto l’impressione che il Novecento, questo secolo tragico e sanguinario, avesse voltato pagina. Anche alla stazione ferroviaria di Udine ho provato una simile emozione: è da lì che mia madre, Maddalena Cavina, il 2 agosto del 1944 fuggì dal treno che, diretto al confine austriaco, la stava deportando nei lager tedeschi. Aveva diciassette anni. Per me vedere Francesco Di Lorenzo, responsabile della Penny Wirton friulana, andare quasi di fronte a quei binari a chiedere agli immigrati seduti ai tavolini di un bar di partecipare alla scuola, rappresenta un motivo di speranza.
È la ragione per cui, come tutti gli insegnanti, ho fiducia nel futuro: il tema della puntata di Ferrara. Come nell’opera di Giorgio Bassani, in questa città che ha il colore del corallo trovi sempre un muro che divide, una finestra da cui la gente osserva, una barriera qualsiasi. Mi è piaciuto pensare che una Penny Wirton estense potesse essere ancora più simbolica delle altre: come se docenti e studenti fossero riusciti a scavalcarli, questi muri, insegnandoci a parlare con gli spiriti del nuovo mondo. A Milano, dove Laura Bosio coordina i numerosi volontari, alcuni studenti africani hanno letto davanti alle telecamere l’Addio ai monti manzoniano. Raccontare i Promessi Sposi ai ragazzi immigrati è come riverniciare con una tinta nuova la letteratura italiana: misurare, attraverso il loro sguardo attento, la dimensione universale di quella nostra storia. Capire fino a che punto questo romanzo, per venire davvero compreso, debba essere condiviso. A Bari in un cortile dove si mischiano piatti e profumi pugliesi e africani, abbiamo ritrovato il senso profondo di un verso che Federico II abbozzò agli albori della lingua italiana: «La vostra cera umana / mi dà conforto e facemi allegrare».
Con l’ultima puntata siamo infine tornati nella capitale insieme a Mohamed e Tijan, miei ex studenti alla Città dei Ragazzi, la celebre comunità educativa basata sull’autogoverno fondata da monsignor Carroll- Abbing, dove tutto è cominciato, i quali mi hanno indicato il cammino che resta ancora da percorrere verso la cittadinanza vera, non solo quella timbrata sul passaporto, il cui ottenimento pure tanta incredibile fatica ancora comporta, ma il sentimento di appartenenza e accettazione di valori comuni che deve crescere dentro tutti noi. Per questo l’immagine simbolo del programma è forse proprio quella di Sharif, il figlio del mio scolaro della Sierra Leone, nato all’ospedale San Camillo di Roma. A nemmeno due anni l’irresistibile bambinello nero batte il tasto del pianoforte e chiude la sigla annunciando i titoli di coda. È già lui, nonostante tutto, il nuovo italiano.