Michelangelo, "Pietà Rondanini" (particolare). Milano, Castello Sforzesco - Ansa
In Ritorniamo a sognare, pubblicato alla fine del 2020, papa Francesco aveva scritto: «Un pensiero fecondo dovrebbe essere sempre incompleto per dare spazio a sviluppi successivi». Di recente, nel Quaderno 4417 della “Civiltà Cattolica”, Diego Fares è tornato a riflettere sul significato di tale richiamo alla incompletezza. L’invito del Papa interroga non solo le forme del pensare, spesso erroneamente date per definitivamente acquisite, ma anche la missione stessa di filosofia e teologia. Come non ricordare che già nella Veritatis gaudium del 2018, Francesco aveva avvertito che «il buon teologo e filosofo ha un pensiero aperto cioè incompleto»? Il gesuita Fares propone di declinare tale dimensione costitutiva del pensiero in tre direzioni: l’adozione di una mentalità dialogica, l’inclusione, la presa in carico dell’altro. Ovviamente, persino di fronte all’evidente fecondità di tali proposte, non viene meno il pungolo costituito da alcune obiezioni che possono essere mosse al 'pensiero incompleto'. La maturità del pensare non si misura forse dal modo in cui un approccio teorico è in grado di organizzare una comprensione sistematica del reale? Di fronte a tale istanza fondativa, la proposta del pensiero incompleto non equivale a un indebolimento del modo stesso di essere della razionalità? In realtà, l’incompletezza auspicata dal Papa solo superficialmente può essere abbinata a un disincarnato idealismo. Al contrario, si tratta di una fine strategia per porre il pensiero nella condizione di affrontare appropriatamente le sfide planetarie che ci attendono (si pensi alla recente pandemia e all’approccio integrato da essa richiesto per essere superata). Oggi, l’urgenza di predisporre «altre mappe, altri paradigmi, che aiutino a riposizionare i nostri modi di pensare», auspicata da Francesco negli auguri alla curia romana in occasione del Natale 2019, può utilmente essere colta in relazione a due ulteriori scenari: da un lato il ripensamento del nesso tra teorie e pratiche; dall’altro l’avvio di un effettivo dialogo tra saperi. Sul primo versante, non vi è dubbio che teorie e pratiche rappresentino ambiti diversi. D’altro canto, se si guarda alle odierne prassi accademiche, è difficile sottrarsi alla sensazione che proprio tali ambiti siano intesi al modo del congedo delle prime dalle seconde. In questi casi, il pensare stesso incorre nel rischio di teoreticismo, la tendenza all’astrazione indifferente rispetto alle esigenze della realtà. L’antidoto a tale deriva è un pensiero che, realmente in grado di ascolto, superi ogni “duologo”, espressione del filosofo Abraham Kaplan, mutuata dal Papa in occasione del Messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni, per indicare l’assenza di una virtuosa osmosi comunicativa con gli altri. Sul secondo versante, una volta che il ponte tra teorie e pratiche sia stato opportunamente rinforzato, occorre riscoprire il senso del dialogo tra saperi. In tal senso, alle fuggevoli occasioni di confronto tra esperti di campi diversi andrebbe sostituita la capacità di effrazione dei confini disciplinari. Non si tratta di essere intellettuali à la page o di rinunciare a quanto la tradizione della conoscenza ci ha consegnato. Tutt’altro: sono proprio le urgenze segnalate dai contesti a richiedere di comporre la frammentazione disciplinare esistente nell’unità del sapere, riscoprendone così le ragioni fondanti che possono avviare verso una autentica interdisciplinarità. Il conseguimento di questi due obiettivi, ovvero la riscoperta del nesso teoriapratica e l’avvio del dialogo tra saperi, ha un’unica e comune condizione di possibilità: superare l’autoreferenzialità di cui è espressione la placidità con la quale si guarda il mondo. Oggi più che mai, abbiamo bisogno di sguardi inquieti, pronti a mettere in discussione la propria monologia e coraggiosamente in grado di abbracciare orizzonti nuovi. Così l’incompletezza richiamata dal Papa ci aiuta a riavvicinare il pensiero alla vita, mediante una rinnovata capacità di discernimento. Solo un vigile e consapevole sguardo su se stessi, infatti, potrà conciliare la necessità di pensare l’esperienza con la vitale istanza di esperire il pensiero.