Leviathan arranca sulle strade di Euroland. Sbanda spesso, ma nonostante tutto avanza, mangia la strada, sfugge agli inseguitori. È un camion, ma si porta nella stiva il mondo, sia pure sotto specie di rappresentazione teatrale. Più che un marchingegno, è un organismo vivente. Un mostro meccanico, che ricorda nello stesso tempo la balena Moby Dick e la baleniera Pequod. Di sicuro il suo nocchiero, Wulferio, è un Achab alla deriva lungo le tangenziali di un’inquietante Europa prossima ventura. Disciolti gli Stati nazionali, pullulano tribalismi arcaici, basta imboccare la direttrice sbagliata e ti ritrovi dritto in una enclave musulmana. Eppure, in tanto marasma, il cristianesimo non è sconfitto. Al contrario, fioriscono i
bâtisseurs, gli scultori di santi che, in altri tempi, abbellirono le cattedrali. E le eresie fioriscono, queste figlie illegittime delle nozze tra l’immaginazione e la fede. Non si spiegherebbe altrimenti la fortuna del predetto Wulferio, uno che a vederlo pare poco più di un tanghero, lebbroso per di più, un resto d’uomo, che trattiene nella voce tutta la sua forza. Un portento, ma soltanto a parole. Tanto gli basta, però, perché Wulferio è il capocomico di Leviathan, e Leviathan è il carrozzone che inscena prodigi in ogni angolo di Euroland. Avvicinandosi, per quanto possibile, alla terra santa di Gandersheim, dove risiede l’abbadessa Horoswita, poetessa e visionaria, cantatrice del martirio, profetessa del passato… Sì, questa volta Ferruccio Parazzoli ha fatto sul serio. Il suo nuovo libro,
Il mondo è rappresentazione (Mondadori, pagine 384, euro 20,00), è un boccone impegnativo e nutriente, condito con abbondanza di citazioni. Con imprestati evidenti, come quelli dal Deacameron, e altri apprezzabili soltanto dai palati più fini, come quando l’autore si diverte a esibire efferatezze, che parrebbero postmoderne, a metà fra Stephen King e Quentin Tarantino, e invece arrivano direttamente dai drammi della predetta Rosvita, che a Gandersheim, in Germania, fu davvero badessa nel secolo X, autrice di sacre rappresentazioni non meno corrusche di quelle che ritroviamo nelle pagine del romanzo. Come nel capolavoro di Melville, anche qui c’è un narratore al quale occorre prestare credito. Si tratta di Brendano, monaco dell’abbazia milanese di Morimondo, spedito in missione sulle tracce dell’eresiarca Wulferio, salvo poi finire irretito nella sua retorica metafisica, alla quale danno manforte personaggi ambigui come la strega Tempestaria, l’africano Artaldo e il misterioso Imperatore, una carta che sembra tirata a sorte dal mazzo dei tarocchi. Ma che cosa si rappresenta, in definitiva, sul palco scalcagnato di Leviathan? Il solito duello del Bene contro il Male? Parazzoli, che non è nuovo all’esplorazione delle zone d’ombra dell’umano (si pensi, in particolare, al suo
Nessuno muore, del 2001, rivisitazione pessimista del mito di Ulisse), ci tiene a essere chiaro: «Nel mio romanzo – spiega – il vero avversario di Dio non è il diavolo, che tutt’al più può ambire a essere uno dei personaggi della rappresentazione allestita da Wulferio. Il vero nemico è semmai il Nulla, come lo stesso Brendano si trova a scoprire nelle ultime pagine del racconto, quando si trova faccia a faccia col Tentatore». Anche qui bisogna intendersi, perché il nichilismo che Parazzoli prende di mira non è quello "forte" della tradizione nietzscheana. «Al contrario – ribatte lo scrittore – a preoccuparmi è la versione debole, il cosiddetto nichilismo di massa, senza impegno. Una pappa del niente che toglie spazio a Dio, sostituendo il nonsenso alla ricerca di senso che, da sempre, è l’origine di ogni avventura teologica. Se, come oggi si sente ripetere, soltanto l’opportunismo individuale fosse portatore di senso, allora Dio stesso si ridurrebbe a una percezione istantanea. Se veramente il mondo fosse rappresentazione, Dio sarebbe soltanto un personaggio e, alla lunga, diventerebbe una comparsa». Boccone impegnativo, lo abbiamo già detto, ma proprio per questo tanto più necessario da masticare. Anche perché Parazzoli (classe 1935) conferma con questo libro il talento di mettersi in dialogo con i narratori più giovani, come il quarantenne Alessandro Bertante, che nel recente
Nina dei lupi (Marsilio, pagine 234, euro 18,50) immagina a sua volta un mondo dopo la catastrofe, nel quale però il cristianesimo è del tutto eclissato a favore di un rinverdire dei culti ancestrali. Nell’Euroland di Parazzoli – che pure è una condizione provvisoria, perché prima o poi la mano invisibile della finanza tornerà a giocare la sua parte e la violenza, momentaneamente deflagrata in sede comunitaria, sarà ricacciata nelle segrete del privato – è invece il meraviglioso cristiano che torna a trionfare, con il culto quasi ossessivo dei martiri, nel quale è insito il riconoscimento del corpo come luogo originario della salvezza. L’estasi dell’anima potrà anche essere privilegio di pochi, ma la passione della carne tutti la conosciamo. Magari è per questo che, alla fine, il boccone amaro del
Mondo è rappresentazione lascia in bocca un retrogusto di speranza.