domenica 24 aprile 2016
Levante, l’ombelico del mondo
COMMENTA E CONDIVIDI
«Per compiacere i clienti, dovevamo conoscere una canzone o due di ciascuna nazionalità. Suonavamo musica ebraica e armena e araba. Cittadini del mondo eravamo, no?». Così raccontava un certo Papazoglu che, nella Smirne di fine Ottocento, animava le serate nei brulicanti caffè del Cordòn esibendosi nel rebetiko, lo stile musicale tipico della città che mischiava armonie turche e greche, e su cui lasciarono la propria impronta i gruppi etnici che allora vivevano nella “perla dell’Egeo”: armeni e zeybeck (i “turchi dell’interno”), ebrei e italiani, andalusi e bulgari. La perfetta colonna sonora – potremmo dire – di ciò che per secoli, ai tempi dell’impero ottomano, fu il Levante: luogo d’incontro tra Oriente e Occidente e di convivenza tra fedi e identità diverse, nel nome degli scambi commerciali, del progresso e dell’apertura culturale. Un paesaggio, da Alessandria a Salonicco, da Smirne a Beirut, dove chiese, moschee e sinagoghe si erigevano una di fianco all’altra, ma anche una mentalità, flessibile e pragmatica. Un mondo sempre in bilico tra tolleranza e compromesso, ma che fu reale, dotato di una sua lingua franca e di uno stile di vita ben riconoscibile dall’esterno. Finché i nazionalismi e i fanatismi identitari non cominciarono a minare dall’interno questa peculiare esperienza della storia e, all’inizio del XX secolo, finirono per spazzare via il multiculturalismo levantino tra pogrom e pulizie etniche. In capo a pochi decenni, lo splendore di città moderne e sempre in attività fu sovrastato dal bagliore sinistro degli incendi. Proprio oggi, nella giornata in cui gli armeni fanno memoria dell’inizio del Grande Male, il genocidio che dal 1915 assestò un colpo mortale alla loro millenaria e vitalissima presenza in Anatolia, è particolarmente interessante riflettere sulle vicende che lo storico inglese Philip Mansel rievoca nel suo brillante saggio Levante. Smirne, Alessandria, Beirut: splendore e catastrofe nel Mediterraneo (Mondadori, pagine 470, euro 32,00; traduzione G. Petrillo). «Il folle progetto dei Giovani turchi, “ripulire” l’Anatolia dalle diversità per renderla più sicura, finì per indebolire la Turchia, a riprova del fatto che, più del multiculturalismo, è il nazionalismo malato che può portare al disastro », afferma Mansel, studioso di storia delle corti e noto esperto del tardo impero ottomano. Professore, lei sostiene che il “Levante” non sia solo una regione geografica ma anche un concetto: che cosa significa? «Il “Levante” è sinonimo di convivenza, di abitudine alle differenze. È una mentalità secondo cui gli affari venivano prima degli ideali, i commerci erano almeno altrettanto importanti della religione. In queste città, dove i diversi gruppi avevano bisogno l’uno dell’altro, fiorì una cultura ibrida che ha lasciato un’impronta fino ad oggi. La si può vedere negli eredi delle comunità levantine, che hanno una dimestichezza naturale con le differenze e quando parlano passano con disinvoltura da una lingua all’altra. Ancora oggi, per esempio, gli alessandrini hanno un’attitudine particolare per le attività turistiche e la diplomazia, perché sono abituati ad avere a che fare con la diversità». Nonostante le minacce, interne ed esterne, che periodicamente lo misero alla prova, questo equilibrio levantino riuscì a resistere per alcuni secoli: come? «L’esperimento durò a lungo perché l’impero ottomano aveva enorme bisogno delle influenze esterne: gli affari, certo, ma anche i progressi tecnologici e scientifici, così come l’istruzione europea. Le scuole migliori, da Smirne a Beirut, erano quelle francesi, spesso gestite dai missionari, che venivano frequentate dai figli dei notabili, come ad esempio la moglie di Mustafa Kemal, Latife». Poi però qualcosa cominciò a rompersi, le appartenenze etniche e religiose diventarono sempre più importanti e crearono divisione: perché? «Nel XX secolo si affermò il diktat dell’identità pura ed esclusiva: già da qualche tempo, da Madrid a Mosca, il nazionalismo stava diventando una religione. E proprio le città levantine, meticce per ananzitutto tonomasia, per reazione produssero alcuni dei grandi nazionalisti dell’epoca: l’eroe egiziano Gamal Abdel Nasser era nato ad Alessandria, mentre la rivoluzione dei Giovani turchi del 1908 non si può capire senza la sua culla, Salonicco. I centri urbani si svuotarono di intere comunità, che si rifugiarono in Europa o negli Stati Uniti, mantenendo un’identità flessibile. In Anatolia si consumarono terribili genocidi: degli armeni, degli assiri, dei greci… Ma in nome dell’omogeneizzazione patirono anche alcuni gruppi musulmani, come i macedoni». Uno dei principali fattori che destabilizzarono l’equilibrio del Levante fu l’interferenza delle potenze straniere, che manipolarono le comunità locali: vede qualche similitudine con ciò che accade in Medio Oriente oggi? È vero: sappiamo bene come la Russia manipolò gli armeni, la Gran Bretagna i drusi libanesi, la Francia i maroniti... Un’influenza – va detto – spesso incoraggiata dalle popolazioni locali: basti pensare agli appelli dei greci ottomani alla “liberazione” da parte della Russia o della Grecia. Ma tali interferenze sono sempre letali, come dimostra anche l’attualità. Oggi nello scacchiere mediorientale vediamo chiaramente molti giocatori esterni: l’Occidente e la Russia, i Paesi del Golfo, l’asse sunnita e quello sciita… ma questi interventi non fanno che rinfocolare i sospetti e le paure reciproche delle parti in causa, minando il tessuto sociale». Sospetti e paure che poi si allargano globalmente, fomentando la violenza e spingendo ad alzare nuovi muri… «In Europa cresce la fobia dell’invasione da parte dei rifugiati, in Medio Oriente si grida all’imperialismo occidentale. È un circolo vizioso: la paura nutre la violenza, la violenza a sua volta rafforza i timori incrociati. Per questo è fondamentale, prima di tutto, che i governi e gli eserciti rispettino sempre le regole del diritto. E poi, mai fomentare odi religiosi».  Cosa può insegnarci oggi l’esperienza del Levante? «Che i popoli possono vivere insieme, che la grande sfida della globalizzazione può essere vinta. A patto che, nelle nostre metropoli, non puntiamo a elaborare una sola cultura, bensì tante culture che però condividano una lingua e alcuni valori comuni. Con i governi che garantiscano lo Stato di diritto».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: