«Nei primi anni della mia presenza a Venezia, ho avuto modo di vedere, qualche volta, il poeta Ezra Pound fermo a metà del ponte dell’Accademia, appoggiato al parapetto che guarda verso San Marco. Un giorno lo incontrai ai piedi del ponte, mi vide, mi salutò togliendosi il cappello, lo salutai. Era pallido, magro, camminava come fosse estraneo e assente dalla realtà che lo circondava». Sono parole che Albino Luciani, papa Giovanni Paolo I, consegnò alla discrezione di padre Francesco Saverio Pancheri, al tempo in cui era patriarca di Venezia, tra il 1970 e il ’78. Al religioso, direttore del Messaggero di Sant’Antonio del quale era prezioso collaboratore, il cardinale Luciani confidò di conoscere il dramma vissuto da Pound, come uomo e letterato. E di certo aveva letto qualche pagina dei Cantos, se si sentiva interpellato da quel vecchio con la barba bianca, che sostava sul ponte assorto nei suoi pensieri, come se provenisse da un mondo lontano, messaggero del mistero e dell’ignoto. I due patriarchi, attraversandosi con lo sguardo per un istante durato l’eternità, specchiarono i loro animi l’uno nell’altro lasciandovi l’impronta di un interrogativo e, forse, di una risposta.La testimonianza del pontefice che regnò soltanto 33 giorni, e che è passato alla storia come il «papa del sorriso», riapre la discussione sui rapporti tra l’autore dei Cantos e le religioni storiche, specie il cristianesimo. Rapporti non risolvibili in una frase a effetto, perché il poeta statunitense rifiutava ogni conclusione scontata nell’approccio alla fede. Innamorato di Confucio, Pound, figura di moderno profeta gettato come un ponte tra l’antichità dei classici e il nostro tempo, ha concluso la sua traversata nel deserto proprio in quella Venezia, cattolica e pagana, universale e intima, spirituale e secolare, che costituì per lui un’irresistibile richiamo giunto dai territori profondi dell’anima. Una Venezia che, proprio negli anni del suo crepuscolo (il poeta chiuse gli occhi nella Laguna, dove è tuttora sepolto, il 1° novembre 1972), era spronata dall’insegnamento di un vescovo che avvertiva in modo particolare la presenza della comunità degli artisti. In verità, la figura di Albino Luciani e quella di Ezra Pound possono apparire talmente lontane da troncare sul nascere ogni discussione. Eppure, il poeta e il futuro papa avevano in comune una idiosincrasia per i meccanismi perversi del potere finanziario: se l’uno tuonava nei suoi scritti contro l’usurocrazia, il sistema che produce denaro con il denaro, l’altro ingaggiava una solitaria battaglia di moralizzazione delle banche cattoliche che aveva come obiettivo un radicale ritorno alle origini, ovvero allo spirito mutualistico delle casse sorte per tesaurizzare i risparmi della povera gente, costruiti con il sudore.È noto infatti che, fin da quando era vescovo di Vittorio Veneto, nel 1962, Luciani reagì con un coraggio che sarebbe piaciuto a Pound allo scandalo finanziario che si abbatté sulla sua diocesi. Due sacerdoti, implicati in speculazioni per quasi due miliardi di lire, vennero severamente rimproverati dal loro vescovo, il quale, pur non essendone affatto tenuto a norma di legge, decise di risarcire i truffati mettendo in vendita immobili e terreni della curia. Tuonò il futuro Giovanni Paolo I: «Nessuno deve lamentarsi di essere truffato nemmeno di un solo centesimo dalla Chiesa». Che cosa, d’altro, accomunava Luciani e Pound? A unirli era anche l’amore per la letteratura. Don Albino scrisse epistole immaginarie ai grandi del passato: tra essi, molti erano scrittori e poeti, come Chesterton, Peguy, Petrarca, Manzoni e Trilussa. Ma il porporato che non studiava da papa, e che si abbandonò totalmente alla volontà del Padre che lo aveva chiamato alla missione per lui umanamente inconcepibile di guidare il popolo di Dio, responsabilità immensa, insisteva su quella dottrina sociale cristiana che costituiva un architrave della terza via tra capitalismo e marxismo che anche l’autore dei Cantos vagheggiava. Tutto quanto l’insegnamento di Luciani culmina nella contestazione di un quel sistema nefasto che è il capitalismo senza regole e l’attaccamento dell’uomo al denaro. Addita anzi a esempio moralmente riprovevole una grande figura dickensiana, l’usuraio Scrooge.Dunque, chiedo alla figlia di Pound, Mary de Rachewiltz, se suo padre può essere considerato un antesignano dei no global. "Sì e no. È vero che condividerebbe la rivolta contro la suprema mercificazione dell’uomo. Ma era assolutamente contrario alla violenza e noi abbiamo assistito a manifestazioni cruente".E dell’incontro tra Pound e Luciani, che dice? «Non ne sono stata testimone diretta, ma penso che non fosse difficile che i due personaggi potessero accostarsi, a Venezia, che è un salotto. Pur senza frequentare i riti, mio padre entrava nelle chiese e aveva simpatia per le funzioni religiose condotte bene. Nei Cantos esorta alla preghiera, ma non nel senso ristretto, beghino. Diceva che se avesse potuto scegliere i propri santi, sarebbe stato cattolico. Di recente, ho saputo che anche il successore di Luciani, l’attuale patriarca Angelo Scola, ha citato una poesia di Pound in un suo intervento».Mary de Rachewiltz conduce una sua battaglia contro l’utilizzo strumentale della figura del padre da parte di centri sociali antagonisti di estrema destra che si sono appropriati del suo nome. Scandisce: «Pound va letto come si legge Dante, cioè come un classico, e per comprenderlo bisogna partire dalla conoscenza della sua opera poetica, i Cantos. Mi dispiace per ragazzi in buona fede che si lasciano coinvolgere facendo dimostrazioni di tenore politico in nome di Pound». Si giunge al tasto dolente: all’autore dei Cantos, viene ancora oggi rimproverata la sua ammirazione verso Mussolini, che pagò duramente con i tredici anni di internamento al manicomio criminale Saint Elizabeth di Washington. Riconosce la figlia: «Sì, è vero, ripose molte speranze nel Duce, ma alla fine dovette dolersene perché quella di Mussolini fu una rivoluzione mancata. Non per nulla, Pound consacrò l’ultima parte della sua vita al silenzio, il biblico tempus tacendi, che segue il tempus loquendi. Una forma, quasi, di penitenza, da osservarsi dopo che ci si è fatti trascinare dall’ira, come fanno i profeti. A me piace pensare che l’incontro con Luciani fosse avvenuto senza parole. Perché negli esseri superiori c’è una sensibilità superiore».