domenica 5 dicembre 2010
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«La cosa più difficile? Affrontare se stessi». Forse bisogna partire da frasi come questa per ragionare davvero su John Lennon trent’anni dopo l’8 dicembre 1980, quando Mark Chapman gli sparò sulla porta di casa a New York. Perché dietro le provocazioni di Lennon c’era fragilità e alle spalle del suo talento un uomo. Troppo spesso cristallizzato in bandiera da sventolare a priori ed assurto a mito moderno fino a banalizzarne le intuizioni in un cocktail di populismo e marketing. Ma il centro dell’eredità di John Lennon non è nelle provocazioni che più passano gli anni più si scorgono legate alla sua epoca. Ad esempio, non è decisivo tout-court quanto sembri il Lennon dei "bed-in", conferenze stampa pacifiste a letto con Yoko Ono che lo misero in cattiva luce persino alla Casa Bianca, dando il via su di lui ad una letteratura da B-movies di spionaggio periodicamente rilanciata in toni scandalistici. Lì, semmai, contò il dimostrare che tramite la popolarità del rock si poteva – com’egli disse – «vedere la pace strillata sui giornali del mondo». C’è insomma uno scarto evidente, ma non sempre tenuto da conto, fra certe cose dette od ottenute da Lennon e i modi scelti per farlo. Modi originali, inediti, ma pure discutibili: quando non addirittura pensati a tavolino (fu il caso di Happy Xmas (War is over) nata da uno slogan). Il Lennon degli scritti choccanti, delle canzoni su esperienze di droghe, del connubio voyeuristico con Yoko Ono, tutto questo a guardar bene era esteriorità. Di un Lennon che, grazie a molte di queste faccende, svelò al mondo tra i primi che la musica pop di successo poteva andare al di là di mode patinate alla Elvis, e dire qualcosa di importante. Perché ci fossero stati solo choc e provocazioni, trent’anni dopo saremmo ancora qui a scrivere di Lennon? Sarebbe qualcosa di più di un fatto di costume? Crediamo di no. Dietro le sue provocazioni, si accennava, c’era una dichiarata fragilità da ragazzo di periferia: con padre mai visto, madre prima assente e poi perduta a 17 anni, rapporti personali complessi con la prima moglie, con la stessa Yoko Ono, con i figli. E però, dalla sensibilità che a volte accompagna la fragilità, ecco il talento: a riscattare l’uomo con l’arte. Nei Beatles prima, con McCartney vera mente musicale, ma che testi, di Lennon. Ironia (A day in a life), messaggi (All you need is love), dolori quotidiani sublimati (Eleanor Rigby). Ma anche sperimentazioni avanti, come quelle di Revolution n° 9. Poi, da solo – e con Yoko – ancora fuochi di idee, anche se meno luminosi. Da Give peace a chance sino ovviamente a Imagine. Finché la leggenda post-mortem ha preso il sopravvento sull’arte: e, forse, il punto è tutto qui. Se di Lennon si parla ancora è perché c’era qualcosa oltre l’esteriorità e dietro le cifre: 14 milioni di dischi solisti venduti negli States, 400 milioni di dischi dei Beatles venduti nel mondo. Lennon era anche, soprattutto, quel cercare di affrontare se stessi: dichiarato un giorno, cantato più volte, condiviso da chiunque. E la sua eredità è nell’averci provato da artista, prima che un folle gli impedisse di trovare un equilibrio più alto tra la velleità di usare il rock per dire cose importanti e la capacità di farlo senza eccessi né demagogie. Insomma: non saremmo qui a scrivere di Lennon, trent’anni dopo, senza le sue canzoni. Senza la sostanza dietro la facciata, e quei versi che del talento fragile dicono il profondo, universale anelito a capirsi e capire. «Immagina che non ci siano nazioni… Che non sia necessario né uccidere né morire… Immagina che tutta la gente viva in pace… Potresti dirmi che sono un sognatore: ma non sono l’unico». Già, forse è banale dire che, trent’anni dopo, John Lennon è soprattutto dentro faccende come il testo di Imagine. Ma senza queste faccende probabilmente non si discuterebbe ancora di lui. E di certo noi non avremmo mai pensato di scrivere ancora di un artista ucciso tre decenni orsono, e triturato dal merchandising del suo volto come un qualunque Che Guevara sulle tazze della colazione. Non avrebbero senso, queste righe, se l’opera di John Lennon non avesse saputo e sapesse dare voce a tanti. Anche a noi, nel 2010, ben oltre le provocazioni.
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