Dalla vicenda potrebbe scaturire, con un po’ d’inventiva, un romanzo storico carico di suspense, dall’accattivante titolo
Il codice segreto del medaglione di Leibniz. Gli ingredienti narrativi non mancherebbero: il personaggio la cui mente geniale oltrepassa le epoche (Leibniz, appunto); l’ambientazione severa e un po’ spettrale della Biblioteca Augusta; una missiva mai onorata di una risposta e, forse, mai ricevuta e, soprattutto, il disegno per il conio di una medaglia onorifica, piena di segni, simboli e frasi in latino. Il frontespizio del libro di Rudolf August Nolte dedicato al tema (Lipsia, 1734) offre una raffigurazione del medaglione: il corpo è costituito da colonne di numeri, con prevalenza di 1 e 0, incasellati verticalmente nella metà destra, mentre, a sinistra, in forma quasi piramidale. Alcuni di essi sono contrassegnati da un asterisco. Come sfondo, abbiamo un sole nella sommità, che irradia potenti raggi a dissipare una massa informe che si fa sempre più densa e scura via via che si scende verso limite inferiore. Oltre la data MDCXCVII, campeggiano due espressioni: in piccolo, sotto i numeri, «Imago Creationis» e, in alto, stampigliato in caratteri rimarcati su un cartiglio che lambisce la circonferenza stessa del medaglione, l’enigmatica glossa: «Omnibus ex nihilo ducendis sufficit unum». Quale contenuto esoterico risiederà sotto tale simbologia? A quale rimando iniziatico rinvierà? Scoprendo le carte, in realtà, in tale medaglione non dimora alcun arcano, perché esiste una lettera, firmata dallo stesso autore – ovvero, Leibniz – che non solo dirada ogni aura di mistero, ma anzi tenta di esplicare con la massima perspicuità tutti i dettagli della composizione. Il destinatario è il duca di Brunswick-Wolfenbüttel Rodolfo Augusto, la cui effigie, peraltro, è ritratta nell’altra faccia del medaglione. Nessun mistero, dunque, ma, forse, una sorpresa o, per meglio dire, una verità storica non molto spesso raccontata.Nel 1691, Leibniz è designato dal duca Rodolfo Augusto a dirigere la cosiddetta Biblioteca Augusta. Leibniz ha quarantacinque anni, non ha ancora scritto i suoi capolavori filosofici, ma è già una celebrità presso la corte di Hannover. Talora, egli è ammesso a conversazioni private con il Principe Serenissimo. Nel maggio 1696, in uno di tali confronti, Leibniz accenna alla sua idea, cullata da lungo tempo, ma non ancora espressa pubblicamente, intorno alla possibilità di un nuovo tipo di aritmetica, che riduca i dieci segni della numerazione araba a due sole cifre, l’uno e lo zero. Non si sa come il duca alimentò la discussione, ma rimangono tracce di due importanti esiti: l’intuizione secondo cui tale aritmetica binaria poteva essere utilizzata come simbolo della creazione del mondo dal nulla da parte di Dio, e l’entusiasmo del filosofo per aver finalmente trovato il significato alla sua idea sinora priva di scopo. Il 2 gennaio 1697, con l’occasione degli auguri per il nuovo anno, Leibniz scrive una lettera al duca con cui torna sull’argomento a lui particolarmente caro. E lo fa proponendo un conio memoriale in argento che celebri da una parte la magnanimità del duca e, dall’altra, l’intuizione di quella sera del maggio 1696, tanto essa appare meritevole di essere diffusa e trapassare alle generazioni future. Adesso, agli occhi di Leibniz, l’utilità dell’aritmetica binaria è lampante: «non c’è miglior analogia, o perfino dimostrazione, della creazione di tutte le cose dal niente attraverso l’onnipotenza di Dio che l’origine dei numeri qui rappresentata, ovvero usando solo l’unità e lo zero, dove dal semplice impiego dell’unità tutti i numeri sono originati». Per questo, spiega il filosofo, sotto le colonne numeriche sta l’iscrizione «Immagine della creazione» e sopra, in grande evidenza, la glossa «Per trarre tutte le cose dal nulla basta l’Uno». E lo stesso concetto è ribadito dal simbolo del sole (l’Uno) che introduce gradualmente nel caos oscuro e informe (lo Zero) il Logos razionale. Quindi, Leibniz passa a spiegare al duca il significato degli asterischi su alcuni numeri, ad indicare come si compiano le operazioni di addizione e moltiplicazione nel nuovo cifrario. Il mese successivo, Leibniz scrive a padre Claudio Filippo Grimaldi, gesuita, all’epoca in missione in Cina, ribadendo che la sua invenzione è certamente «un nuovo testimonium dei dogmi cristiani», nella fattispecie di quello così inviso ai pagani della creazione dal Nulla. Leibniz esprime inoltre la sua speranza che tale rappresentazione dei numeri «possa servire a mostrare sempre più all’imperatore cinese (amante dell’arte dell’aritmetica) l’eccellenza della fede cristiana».Ormai, per Leibniz, è un crescendo di entusiasmo e di certezza della bontà della sua scoperta e dell’utilità al servizio della fede. Ne scrive quindi a Johan Christian Schulenberg, a padre Joachim Bouvet, al matematico Johann Bernoulli, a Bernard le Bovier de Fontanelle, segretario dell’Accademia delle Scienze di Francia. È un rincorrersi di nuovi arricchimenti dell’idea. Ora, il filosofo richiama il versetto del Vangelo di Luca 10,42 (episodio di Marta e Maria) «unum est necessarium», ora vede dimostrato che il sabato, il settimo giorno, è la perfezione e il compimento, perché, nel suo nuovo codice binario, il numero 7 figura come 111, che non ha traccia dell’oscurità dello 0 ed ha, per di più, una particolare «relazione con la Trinità». Oggi si sa bene che il sistema di numerazione binaria serve anche a qualcos’altro, costituendo l’essenza del linguaggio di programmazione dei computer. Ed è parimenti assodato storicamente, come documenta – uno per tutti – Anton Glaser nel suo
History of binary and other nondecimal numeration (Pennsylvania, 1971), che in merito a tale invenzione, nonostante i vari apporti, c’è solo un «prima di Leibniz» e un «dopo Leibniz».