Una scena del film “The Pilgrim’s Progress”, tratto dal capolavoro “Il pellegrino cristiano” di John Bunyan
Prima di diventare la testata di una rivista e prima ancora di prestare il titolo al più famoso tra i romanzi di W.M. Thackeray, Vanity Fair – ossia “la Fiera delle Vanità” – è stato un posto molto poco raccomandabile, regno equivoco di bari e giocolieri, scimmie e buffoni, furfanti e canaglie d’ogni tipo. Qui Cristiano viene imprigionato con l’accusa di non voler comprare la mercanzia del luogo e qui Fedele subisce il martirio per aver mancato di rispetto a Belzebù, che della Fiera è il Principe incontrastato. Le maiuscole e l’assenza di articoli non sono casuali. Christian è nome proprio, così come Faithful, e per il resto è l’allegoria che domina, immediata e subito convincente. L’assoluta semplicità dello stile, unita a un indiscutibile realismo, è uno degli elementi che meglio spiegano la straordinaria fortuna di cui ha goduto nei secoli The Pilgrim’s Progress, di volta in volta tradotto in italiano come il “Viaggio” o il “Cammino” di quel “Pellegrino” che è appunto Cristiano e che, in fondo, siamo tutti noi. Pubblicato inizialmente nel 1678 e completato della seconda parte nel 1684, è il capolavoro riconosciuto di John Bunyan, scrittore dalle origini modestissime (il padre esercitava il mestiere di calderaio) e testimone delle vicissitudini religiose che segnano l’Inghilterra del XVII secolo.
Nato nel 1628 a Elstow, un piccolo villaggio del Bedfordshire, Bunyan è un giovane irrequieto e fantasioso, che serve per qualche anno nell’esercito e poi affronta, poco più che ventenne, una profonda crisi spirituale. Aderisce al movimento battista e intraprende con successo l’attività di predicatore fino a quando, nel 1660, viene arrestato per le sue convinzioni di “non conformista”. Siamo alla vigilia dell’Atto di Uniformità, che due anni più tardi sancisce la restaurazione operata da re Carlo II: in sostanza, le diverse confessioni protestanti (che avevano prosperato durante la cosiddetta Rivoluzione puritana guidata nel decennio precedente da Oliver Cromwell) devono ora adeguarsi ai riti e alla formule della Chiesa anglicana. Chi si rifiuta, insistendo nelle pratiche di una qualche 'conventicola', finisce in carcere. È la sorte di Cristiano alla Fiera della Vanità e in diverse altre tappe della sua travagliata epopea. Ed è la sorte dello stesso Bunyan, che viene rimesso in libertà solo nel 1672 e nuovamente imprigionato in seguito, sia pure per periodi più brevi. Al momento della morte, nel 1688, non possiede più nulla: per evitare ritorsioni contro la famiglia, i suoi averi sono stati da tempo intestati alla moglie.
The Piligrim’s Progress si presta a molte interpretazioni. Lo si può leggere come l’ultima grande allegoria medievale e come il primo romanzo composto in lingua inglese, come un’opera di devozione e come un formidabile racconto di avventure. Senza dubbio, è un libro sulla persecuzione ed è proprio in questa prospettiva che Revelation Media (una casa di produzione che fa riferimento al mondo delle congregazioni evangeliche statunitensi) si appresta a lanciarne la nuova versione cinematografica, realizzata con la tecnica dell’animazione digitale. Negli Usa il debutto è previsto per Pasqua e negli stessi giorni il film dovrebbe essere trasmesso anche da una rete televisiva che copre il territorio iraniano. Dalle immagini disponibili in rete (www.pilgrims.movie) il risultato non è privo di vivacità, anche se rimane evidente l’intento didascalico. Il pubblico d’elezione è rappresentato non solo dalle famiglie, ma anche dai missionari che vivono in contesti nei quali il cristianesimo è minoritario o addirittura perseguitato.
Non è la prima volta che The Pilgrim’s Progress arriva sullo schermo. Già nel 1912, per esempio, si registrano due pellicole mute ispirate all’opera di Bunyan, una delle quali girata in Italia. Circostanza abbastanza singolare, se si considera che nel nostro Paese il libro resta ancora oggi poco conosciuto, nonostante una certa abbondanza di traduzioni: alla classica versione ottocentesca di Stanislaso Bianciardi hanno fatto seguito quella parziale di Adriana Schmidt Perrone per Gribaudi nel 1985 e, più di recente, quella curata da Pietro Federico e Marta Coghetto per Raffaelli. Non sono mancati altri esperimenti di cinema d’animazione (il più apprezzato porta la firma dell’autore di videogame Scott Cawthon) e può suscitare una certa sorpresa scoprire che nel 1978 il debutto cinematografico di Liam Neeson, il futuro protagonista di Schindler’s List, fu proprio nel ruolo di Cristiano. Si trattava, anche allora, di un film rivolto in prima istanza a un pubblico confessionale, ma questo non deve far credere che l’influenza di Bunyan sia circoscritta all’ambito strettamente religioso.
La storia di Cristiano, che lascia le terre della Distruzione per trovare la salvezza nella Città Celeste, è stata illustrata da William Blake e messa in parodia da William Hogarth (dalle sue tavole su The Rake’s Progress, “La carriera del libertino”, dipende l’omonima opera musicata da Igor Stravinskij su libretto di W.H. Auden e Chester Kallman), riaffiora nel rock e si presta alla graphic novel, agisce in Furore di Steinbeck ed è esplicitamente richiamata da C.S. Lewis per il suo esordio narrativo del 1933, The Pilgrims’ Regress, divenuto in Italia Le due vie del pellegrino. Più ancora della citazione puntuale, a contare è spesso la struttura complessiva, che coincide con il resoconto di un viaggio pieno di pericoli, prove da superare, fughe e battaglie, alleanze e tradimenti. Sì, come nel Signore degli Anelli di Tolkien, che non per niente fu amico del già ricordato Lewis. E dire che, volendo, sarebbe tutto così facile: la strada è diritta, la mappa disegnata con chiarezza, Cristiano non può sbagliare. Si lascia tentare dalle scorciatoie, invece, presta ascolto ai cattivi consiglieri, rischia di confondere la lettera con lo spirito. Ma forse è proprio per questo che, da più di trecento anni, risulta tanto facile riconoscersi in lui.