Marcello Nizzoli, “Manifesto per la III Biennale di Monza”, 1927 (particolare) - Fondazione La Triennale di Milano
Quando a Firenze nel 1926 si tenne il primo Convegno nazionale etrusco, nell’allestimento della seduta inaugurale fu messo al centro il “fascio di Vetulonia” ritrovato nel 1898. L’insieme di verghe con ascia bipenne venne esposto in quella solenne occasione come omaggio in chiave nazionalista al nuovo regime. La circostanza è raccontata nel bel saggio di Andrea Avalli Il mito della prima Italia (Viella, pagine 336, euro 29,00) dedicato all’uso politico degli Etruschi tra fascismo e dopoguerra. Ricercatore presso la Scuola superiore di Studi storici di San Marino, l’autore sottolinea che «se nel Risorgimento gli Etruschi potevano ancora essere contrapposti a Roma e interpretati come esempio di pluralità etnica interna alla nazione italiana, oltre che modello storico di un’Italia municipa-listica e decentrata, sotto il fascismo, con poche eccezioni, sono stati assimilati in un’identità nazionale razzialmente uniforme, integrati nel mito unitario della romanità e rappresentati come progenitori razziali non solo dei toscani, ma in generale degli italiani ». Un discorso in cui la scienza, in questo caso antichistica, si poneva al servizio del regime, anticipando di molto sia l’alleanza con la Germania sia le categorie razziali cristallizzate in legge nel 1938. E che serviva a legittimare l’ordine instaurato dalla dittatura. Ma non solo. Il popolo dalle origini e dalla lingua misteriose divenne un elemento attrattivo per le arti sotto il regime. Che, però, nel Dopoguerra lo trasformarono in popolo oppresso, sulla scorta delle memorie della Shoah. Lo studio ricostruisce innanzitutto lo slancio che l’etruscologia conobbe sotto il fascismo. Ma a.lo stesso tempo compie una suggestiva immersione nei miti nazionalisti, nelle mode e nelle varie teorie scientifiche sull’origine di quel popolo, da quella orientalistica a quella nordica. Il saggio presenta molte figure dell’etruscologia. Come Alfredo Trombetti, glottologo osannato come presunto decifratore della lingua etrusca e sostenitore del monogenismo linguistico, il quale scartò la tesi orientalista per una “mediterranea”. Si attirerà le accuse di aver piegato la scienza al nazionalismo e a una visione cattolica formulate da Antonio Gramsci, che sia pure non professionista interverrà dal carcere nelle polemiche. Trombetti fu il maestro di Massimo Pallottino, nel dopoguerra assurto a fama internazionale come massimo etruscologo, del quale Avalli ricostruisce la parabola durante e dopo il regime. Nel clima della guerra fredda continuerà a sostenere la sua tesi italica e nazionalista. E arriverà anche a propugnare una sorta di “terza via etrusca” tra Oriente e Occidente, elaborando una «rappresentazione europeista e atlantista» degli Etruschi. Altra figura centrale è Ranuccio Bianchi Bandinelli, divenuto antifascista e comunista, ,ma già da prima critico verso il nazionalismo e il razzismo, arrivando ad abbandonare l’etruscologia. Nel dare una forte spinta al mito etrusco in orbace decisivo era stato un altro personaggio meno noto, Giulio Quirino Giglioli. Nazionalista della prima ora e poi fascista convinto, era lo scopritore nel 1916 dell’Apollo di Veio e direttore del museo etrusco di Villa Giulia, a Roma. Oltre a innescare un dibattito specialistico sul carattere italico delle opere etrusche considerate fino ad allora dipendenti da modelli greci, le statue di Veio influirono sull’opera di molti artisti dell’epoca: Arturo Martini, Marino Marini, Giorgio De Chirico, Mario Sironi, per dirne solo alcuni. Il revival etrusco fu promosso da critici come Alberto Savinio e Margherita Sarfatti. E sfociò anche in un moderno stile etruscheggiante, esemplificato dalla “Sala etrusca” di cui il celebre architetto Marcello Piacentini dotò un locale notturno romano , il “Quirinetta”. Non mancarono gli echi letterari in patria e all’estero. Tra gli italiani in prima fila ci sono ovviamente i toscani: gli avanguardisti fiorentini Ardengo Soffici e Curzio Malaparte (che ebbe sul tema un atteggiamento altalenante) fino agli Strapaesani come Mino Maccari e al laziale Vincenzo Cardarelli, poeta di Tarquinia (l’antica Corneto), che in paese va in cerca di tipi popolari etruschi. Il regionalismo strapaesano però viene presto stoppato dal regime. Tra gli stranieri spicca invece D.H. Lawrence, scrittore affascinato dal carattere aristocratico dell’antico popolo. Nonostante la sua avversione per romanità e fascismo, grazie a Elio Vittorini i suoi Etruscan places (postumi) saranno pubblicati per la consonanza antimoderna con il regime. Altri autori stranieri, alcuni antifascisti, saranno attratti dalla magia etrusca: Huxley, Orwell, Queneau, Céline, Sartre e de Beauvoir. Dopo la fine della guerra accade che gli Etruschi vengano svincolati dal mito fascista della romanità. Con esiti contraddittori e paradossali. Da un lato, infatti, li si caratterizza come popolo perseguitato dai romani, alla stregua dei nativi americani vittime dei colonizzatori o degli ebrei massacrati dai nazisti. Dall’altro nell’Italia del boom che si vuole emancipare dal passato li si ridicolizza e marginalizza come anticaglia inutile. Al primo processo hanno contribuito in molti. Giorgio Bassani, che ne Il giardino dei Finzi Contini rievoca una gita a Cerveteri in cui il narratore davanti alle tombe accomuna il destino degli Etruschi a quello dei suoi correligionari ebrei (lo farà anche Luchino Visconti nel film Vaghe stelle dell’Orsa). Gianni Rodari nel racconto Guidoberto e gli Etruischi giocosamente imputa il loro nascondersi in un impenetrabile mistero a una vendetta postuma verso i persecutori romani. Anche Luciano Bianciardi in Exodus li rappresenta come vittime di razzismo. Bianciardi, deluso dalla modernità industriale sulla scorta di Lawrence, sarà protagonista anche della seconda dinamica, fino ad arrivare al paradosso: «Gli etruschi non sono mai esistiti». Ma è stato il cinema a dare la più plastica rappresentazione di questo atteggiamento. Dalle parole sprezzanti del personaggio interpretato da Vittorio Gassman ne Il sorpasso: «Con gli Etruschi mi ci pulisco il c…». Fino all’ironia arguta e popolaresca di Alberto Sordi. In Vacanze intelligenti si dà conto del fatto che anche questa nuova incarnazione del mito etrusco contagi soprattutto le classi intellettuali (o presunte tali). I figli istruiti consigliano alla coppia di fruttivendoli (Sordi e Anna Longhi) di andare a visitare una necropoli per conoscere un popolo oppresso. Quando ci vanno, i due “semplici” non possono fare altro che ridurre il tutto alla loro dimensione quotidiana e rievocano con nostalgia «er pollo all’etrusca che ce magnavamo a Civita Castellana». Addio fascio etrusco-littorio, resta solo un mazzetto di rosmarino.