MMADRID orì abbastanza giovane, cinquantanove anni, nel 1652, per un’epidemia di pleurite che uccise anche sua moglie, la nobile Diana le Nerf che sposandolo gli donò il titolo e dieci figli. Ebbe un discreto successo in vita, e per una dozzina d’anni fu “Pittore del re” di Francia. C’è quella leggenda, probabilmente vera, narrata nel Settecento dal benedettino Augustin Calmet, secondo cui Luigi XIII, il padre del Re Sole, fece svuotare la propria camera da tutti i quadri che c’erano e ordinò che fosse appeso soltanto un
San Sebastiano avvolto in una atmosfera notturna, perché era di «un gusto perfetto» (forse era il
San Sebastiano curato da Irene). Il quadro era stato dipinto da Georges de la Tour. E perfetta è, bisogna dirlo, anche la retrospettiva che il Prado gli dedica fino a giugno, con ben trentuno opere da un catalogo che ne conta poco più di una quarantina di certe. Ma ne spuntano ogni tanto di nuove: nel 2005 proprio a Madrid, un
San Gerolamo che legge ritrovato all’Istituto Cervantes e ora esposto al Prado (in mostra c’è anche la versione, forse più bella, della regina Elisabetta). Non si può negare l’emozione nel vedere queste opere tutte insieme, difficile che si ripeta presto un’occasione simile. Eppure, di fronte alla maestria del pittore lorense provo sempre un certo disagio. Tanto sono stupefacenti la capacità tecnica e il virtuosismo di La Tour, quanto perturbante risulta quella luce cristallina, esoterica, che impregna le figure dipinte. Nel
San Giuseppe falegname, esposto anche a Milano nel 2011 assieme all’Adorazione
dei pastori, la fiamma della candela tenuta da Gesù irradia una luce che accende la mano del bambino, si fa carne di luce (o è il contrario?). Nel
Magnificat di José Cabanis, edito nel 1997, il bambino in fasce dell’Adorazione dei pastori è visto come «un neonato normale, molto grazioso certo, con la pelle che s’intuisce fresca; dorme in pace, senza sapere ciò che l’attende». Eppure, a me quel bambino pare già morto (spesso nell’iconografia del Bambin Gesù le fasce, la culla e la grotta sono simbolo anticipato della sepoltura del Cristo morto), e il suo corpicino, è gravido di luce come annunciasse la futura resurrezione. Più che un’adorazione, sembra un gruppo di comparse raccolte attorno alla greppia sulla quale è appoggiato un bambolotto. Sembra che La Tour abbia conosciuto il caravaggismo attraverso Hendrick Terbrugghen, del quale alla Fondazione Thyssen di Madrid è esposto il quadro
Esaù che vende la sua primogenitura. Se si guarda come la luce opera sui corpi in questo dipinto, si capisce l’abissale differenza dalla luce creatrice di La Tour. In Terbrugghen grandi effetti di chiaroscuro, ma restano tutti sulla superficie della forma: rivelano i corpi, ma non li tengono in vita dall’interno come nelle opere di La Tour. Anche nel dipinto di
San Gerolamo che legge quella medesima luce impregna la carta (le pieghe squadrate del foglio aperto sono un vero oggetto sacro, allusione a geometrie esoteriche o spirituali). La Tour non fu uomo equilibrato. Pare fosse avido e violento, a me ha sempre dato la sensazione di una forte misoginia e crudeltà d’animo. Sentimenti da cui, forse, discende il suo stile legnoso, razionale, duro. Aldous Huxley scrisse che ogni più piccolo dettaglio nei quadri di La Tour ha un preciso significato. Aveva ragione. La Tour ha una visione scettica della vita. Come in un sentimento di rivincita. Il fatto di essere uno del popolo beneficiato col matrimonio del titolo nobiliare, non lo rese magnanimo, ma anzi un po’ carogna e sempre pronto a vantare il suo diverso status. Lo si vede anche nella pittura. La Tour non è interessato alla vita nella sua realtà. La dipinge, come nella
Donna che si spulcia, ma nel concepire il quadro antepone i suoi retropensieri alla verità del soggetto. Un razionalismo spietato, tanto che se si volesse fare la classica prova del conoscitore che da un semplice dettaglio, senza vedere nient’altro del quadro, deve capire di quale pittore si tratta, si potrebbe anche cadere nell’errore di immaginare un pittore di epoca a noi più vicina, più razionalista.
La donna che si spulcia è un quadro tanto bello quanto vile: rappresenta una umanità misera, quella di una giovane gravida con la veste aperta sul ventre che cerca di schiacciare una pulce fra le mani. Pierre Rosenberg ha notato che in La Tour ci sono due universi opposti: quello crudele, derisorio verso l’uomo, pessimista; e quello che lascia stupefatti per la bellezza dell’effetto pittorico: «entrambi affascinano», ha scritto. Nella
Donna che si spulcia questi due mondi coesistono: strepitosa la tessitura pittorica che viene tirata in uno strato così fine da identificarsi con una «chiarezza» di visione (ma non è la
clarté teologica, semmai la sua immanente e tragica riduzione al metodo cartesiano) che serve al pittore per tenere in pugno lo spazio e, in senso più ampio, la realtà; elevato disprezzo verso la donna e la sua condizione sociale invece nel tema e nel modo di rappresentarlo, con una figura femminile che ha il volto stesso dell’ottusità e dell’istinto animale. In effetti, se si guarda a come La Tour rappresenta la donna si resta abbastanza perplessi: la moglie di Giobbe è domina di un uomo che non ha nulla del personaggio biblico, sembra soltanto un povero vecchio obnubilato; la donna del popolo o la contadina consumata dalla vita dei campi, è anziana e dai tratti ruvidi e arcigni. In ogni caso, nei quadri di La Tour gli uomini sono visti come vittime di donne che li comandano, in casa e fuori. La donna bella è Maddalena, replicata in numerose versioni che riscuotono sempre il gradimento del pubblico, secondo lo schema della vanitas (la candela veicolo di una luce che consuma, e lo specchio, memento di una vita che, come la cera, tende a disfarsi). L’introspezione delle sue
Maddalene è quasi priva di referente esplicito: meditano silenziose, ma che cosa ci fa capire si tratta di Maddalene? È sufficiente la spalla scoperta e lo sguardo pensoso, i libri sul tavolo, o il teschio che in un caso vi è appoggiato sopra e si riflette nello specchio? È una Maddalena più metafisica che peccatrice, meditabonda sulla vanità della vita più che sul peccato e sull’amore che salva. Si può concludere che l’universo femminile, nelle sue declinazioni per lo più negative, sia il cuore dell’immaginario di La Tour, cui egli oppone una ferrea razionalità visiva e una superlativa abilità tecnica, due armi con cui crede di farsi giudice del mondo (ben sapendo, nel profondo, che questo cela un moto di risentimento, e così la sua luce arcana sembra emergere da un fondo di bile, ovvero di malinconico scetticismo verso l’uomo).
© RIPRODUZIONE RISERVATA Madrid, Museo del Prado
GEORGES DE LA TOUR Fino al 12 giugno
DAL LOUVRE. “La Maddalena con la candela”