giovedì 19 maggio 2016
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Viviamo oggi in piena era tecnologica, nel trionfo del correttore automatico. Cellulari, iPhone, iPad… Le tastiere a nostra disposizione sono così svelte che non abbiamo neppure bisogno di guardarle. Possiamo digitare un messaggio a velocità record, senza particolari attenzioni, dato che l’automatismo del dispositivo va modificando e (si presume) correggendo i nostri errori di scrittura. La pubblicità, sempre più aggressiva, ci spiega che il correttore automatico offre l’enorme vantaggio di farci risparmiare tempo. Ma tempo per che cosa? Anche nelle relazioni personali esiste la tentazione del correttore automatico. Quando, per esempio, ci aggrappiamo alla lettera della legge come si farebbe con un totem, o al dettato di una tradizione, o agli stretti termini di un punto di vista senza guardare ad altro, come se lì stesse la soluzione a tutti i problemi che possano insorgere. O quando ci agitiamo a correggere gli altri per tutto e per niente. O quando andiamo avanti a ricette e cliché. Non abbiamo nemmeno bisogno di guardare gli altri: ci basta citare macchinalmente il numero della regola che in quel momento stanno infrangendo, o la nostra prescrizione astratta che risolve tutto. Senz’altro in questo modo si risparmia tempo. Ma sappiamo che la vita non è così. La vita è una costruzione paziente. La sua maturazione, non solo esterna ma anche interiore, avviene con un processo delicatissimo. I suoi fili sono tenui e fragili anche quando paiono lunghi e indivisibili. Se vogliamo arrivare alla fonte nascosta di un cuore, dobbiamo accettare di andare molto adagio. Può essere un esercizio anche estenuante, ma non c’è altro modo. Il termine maggiormente impiegato dal Nuovo Testamento per indicare l’atto di correggere è noutheteîn, che letteralmente significa «mettere nel cuore», «riporre nella mente», «prestare attenzione a». Il contrario, quindi, dell’indifferenza, della condiscendenza, del confronto impreparato o prepotente, che sono le nostre più frequenti patologie nella relazione con gli altri e con le loro debolezze. La frequenza di questo termine era enorme nei classici, da Omero a Platone, rivelando così una sintomatica sollecitudine. Proprio Platone, nel dialogo che reca il titolo Eutidemo (248e), firma la seguente frase: «Ti amo, ma ti correggo con amicizia», che è già di per sé un programma. Il termine sarà poi molto utilizzato da san Paolo e dall’ambiente paolino. Come chiaramente appare nella Lettera agli Efesini, esso consiste in una parola che deve rimettere sulla buona strada, ma senza schiacciare o esasperare chi la riceve ( Ef 6,4). E assumerà una forte colorazione legata alla cura pastorale. È interessante osservare la successione di verbi che appare nella Prima lettera ai Tessalonicesi (5,14): esortare, ammonire, incoraggiare, sostenere, essere magnanimi. Verbi che si illuminano e spiegano mutuamente. Per questo la correzione non solo non è automatica, ma non deve essere nemmeno spontanea. Non è sfogo emozionale che mescola impazienza e frustrazione. Non è un’esplosione di umore. La correzione presuppone un apprendistato. Per questo sarebbe assurdo considerare la correzione come un fine: è un’impalcatura, una mediazione collaborativa, un supporto per una costruzione speranzosa. Aiuta a essere. Niente più di questo. Correggiamo meglio quando guardiamo in modo solidale alla difficoltà che sta in causa, e scommettiamo con fiducia sul superamento della prova. E dobbiamo sempre evitare che la correzione sia la nostra unica forma di relazione con qualcuno. Chi solamente corregge, non corregge. © RIPRODUZIONE RISERVATA La tecnologia moderna di pc e dispositivi mobili ci ha abituati a eliminare gli errori meccanicamente mentre scriviamo, quasi senza accorgercene Ma nella vita, nelle relazioni con gli altri, non è così: presuppone un tempo di apprendistato, di conoscenza e di fiducia Chiamate in attesa
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