Aldo Moro a Bologna nel dicembre del 1977 - archivio
L’edizione Nazionale delle opere di Aldo Moro, si arricchisce del quarto volume della Sezione I, “Scritti e Discorsi”, intitolato L’ultima fase (1969-1978), Tomo II, Il ritorno al centro-sinistra e la “solidarietà nazionale” (giugno 1973 – maggio 1978), a cura di G. Formigoni e A. Giovagnoli (edizione e nota storico- critica di C. Zampieri, Bologna, Università di Bologna). Gli anni fra il 1973 e il 1978, gli ultimi della vita di Moro, sono stati quelli in cui ha esercitato maggiore influenza sulla vita politica italiana. Il quinquennio che va dal giugno del 1973 al marzo del 1978 fu uno dei periodi più densi della vita politica italiana e della vita di Aldo Moro, segnato da una serie di processi mondiali di grande rilevanza, secondo quella che è considerata una stagione «piuttosto creativa della politica internazionale ». Anticipiamo alcuni brani dell’introduzione di Agostino Giovagnoli.
Tra i principali nemici della democrazia in Italia, Moro ha individuato il fascismo, che non solo aveva sconfitto la democrazia nel primo dopoguerra ma che continuava anche a costituire il suo avversario più pericoloso in età repubblicana. È una visione non condivisa da una parte della storiografia, che ha insistito sul carattere particolare e irripetibile del fascismo inteso come fenomeno politico italiano sviluppato tra le due guerre. A Moro sembrò però che diversi motivi mostrassero la persistenza di un pericolo fascista anche dopo il 1945: molti italiani non avevano mai preso le distanze dal fascismo, anche tra gli elettori della Dc; un importante partito politico, il Movimento sociale italiano, aveva radici nella Repubblica sociale italiana; nel corso degli anni sono sorti numerosi gruppi che si richiamavano al fascismo; c’è stato chi ha progettato colpi di Stato o radicali cambiamenti politici in nome del fascismo; aggressioni, azioni violente, attentati terroristici – come la strage di piazza Fontana, quella di Brescia, l’attentato all’Italicus ecc. – sono stati attuati da soggetti che si richiamavano esplicitamente al neofascismo. Fuori dall’Italia, inoltre, nei suoi anni si sono affermati movimenti politici ispirati al fascismo, dalla Grecia al Sudamerica. Su tutto ciò Moro ha fondato la convinzione che il fascismo continuasse a essere presente, in forme più o meno sotterranee, e che costituisse ancora il principale pericolo per la democrazia italiana. Ciò non contraddice le ferme convinzione anticomuniste, che si trovano largamente espresse anche in questo volume. Tuttavia, l’ampio schieramento internazionale e interno contro il comunismo allestito durante la Guerra Fredda, rendeva quest’ultimo per l’Italia una minaccia meno immediata. Nella visione di Moro, l’antifascismo ha occupato un posto rilevante. Com’è noto, egli non è stato un antifascista durante il regime e non ha partecipato alla Resistenza dopo il 1943. Tuttavia, pur partendo da un contesto afascista, fin dai primi giorni dopo l’8 settembre ha espresso posizioni antifasciste e si deve proprio a lui un importante chiarimento sul carattere antifascista della Costituzione repubblicana. Appaiono pretestuose e infondate le interpretazioni che lo negano, facendo leva sulle sue perplessità in tema di epurazione. Divenuto segretario della Democrazia cristiana nel 1959, impresse alla politica del suo partito una forte impronta antifascista. La vicenda del governo Tambroni fu da lui affrontata con prudenza e abilità ma anche con grande determinazione e a distanza di tempo continuò a considerarla il maggiore pericolo – che egli aveva contribuito a scongiurare – corso dalla democrazia italiana dopo il 1945. Proprio sul terreno dell’antifascismo, Moro ha realizzato non il suo successo più vistoso ma quello di maggiore spessore storico, portando gran parte dell’istituzione ecclesiastica e del mondo cattolico ad abbandonare nostalgie e legami ancora molto forti con l’eredità fascista. Interagendo con Giovanni XXIII – che simpatizzava con l’iniziativa sua e di Fanfani – con Paolo VI – interlocutore attento, ma spesso preoccupato e prudente – e con molti vescovi italiani, il leader democristiano ha così promosso l’approdo definitivo dei catto- lici alla democrazia e favorito l’isolamento del fascismo. Negli anni Settanta, Moro è tornato più volte sul pericolo fascista. All’inizio del decennio, si era manifestata in Italia una forte spinta a destra e nel 1972 il Movimento sociale aveva raddoppiato i suoi voti rispetto alle elezioni del 1968, mentre si moltiplicavano gli atti di violenza neofascista. Nell’intervista del giugno 1973 che apre questo volume, il leader democristiano parlò di una «pericolosa componente fascista della destra italiana» che si era fatta «più evidente e più aggressiva ». Moro la interpretava come un «fenomeno [non] occasionale, ma profondo»: «il fascismo è l’altra faccia, quella negativa, del grande moto rinnovatore del mondo». Era dunque un fascismo pericolosamente vitale quello che vedeva davanti a sé. «Nella sensibilità del leader democristiano – osserva Guido Formigoni –, era molto forte il rischio di contraccolpi reazionari della stagione della mobilitazione sociale». Ne scaturiva il dovere di scelte chiare per la Dc e una rinnovata chiusura dell’area di governo alla destra fascista. Si trattava, come ha notato George Mosse, di «svolgere un’azione di contenimento esterno nei confronti della destra non cercando di inglobarla e di addomesticarla, ma respingendola in un certo modo in un ghetto». Ma per Moro non bastava: «una accorta azione di governo, un atteggiamento responsabile dei partiti, che non offra, per la sua serietà, pretesti al montare della protesta di destra sono, insieme con le nostre convinzioni morali, il migliore (ed urgente) antidoto al fascismo risorgente in Italia e forse incoraggiato altrove». In particolare, opporsi al fascismo significava «evitare anche il rischio della radicalizzazione della lotta politica, che renderebbe l’influenza reazionaria e fascista determinante»; «significa[ va] evitare un potente coagulo di forze a sinistra intorno al Partito comunista»; «significa[ va] dare articolazione alla vita democratica in raccordo con il Partito Socialista ed in piena intesa con quello socialdemocratico e repubblicano, i quali rappresenta[va]no tradizioni ed ispirazioni importanti e costitui[ va]no una solida garanzia per il Paese». Era il centro-sinistra, inteso come espressione dell’incontro fra tradizioni politicoideologiche diverse e settori della società differenti, la principale risposta politica alla minaccia fascista. L’antifascismo costituiva per Moro una piattaforma ideale, morale e politica condivisa da partiti diversi, che li avvicinava sulle scelte di fondo malgrado divergenze e contrasti, vincolandoli a posizioni comuni in difesa della democrazia. Seppure collegato all’eredità storica dell’opposizione al fascismo durante il regime e alla stagione resistenziale, il suo antifascismo aveva soprattutto una concreta valenza politica, che emerse incisivamente per esempio nei suoi interventi in occasione del golpe in Cile del 1973, cui la Democrazia cristiana cilena e quelle di altri Paesi risposero in modo ambiguo, evitando una netta condanna che invece Moro pronunciò con chiarezza. L’antifascismo di Moro era però diverso da varie forme di antifascismo presenti nella cultura politica di sinistra. A differenza di altri cattolici, il suo non si perdeva, per così dire, in un generico antitotalitarismo, ma le sue radici cattoliche gli ispiravano un antifascismo anzitutto morale, prima che propriamente politico, con una particolare accentuazione del rifiuto della violenza. La sua opposizione al fascismo, inoltre, si basava su un solido fondamento pluralista, che ne rifletteva il carattere democratico, incompatibile con politiche basate sul partito unico, come nel caso comunista. Moro negava anche che si potesse includere la Democrazia cristiana italiana o suoi esponenti in un’interpretazione arbitrariamente estesa del fascismo, come avvenne con la campagna contro il 'fanfascismo' o altre simili. Non lo faceva solo per difendere il suo partito, ma anche perché profondamente convinto che tra il centro e l’estrema destra dovesse intercorrere una netta separazione, che non era emersa con chiarezza nel caso cileno ma che invece in Italia era stata decisiva per rendere possibile nel secondo dopoguerra una storia politica tanto differente da quella del primo dopoguerra.