Il pianto come grazia, bontà e saggezza: con queste tre parole potrebbe essere sintetizzato l’intenso e struggente, anche se ancora incompleto, «magistero delle lacrime» di papa Francesco.Nei primi 24 mesi di pontificato, dal 13 marzo 2013 al 13 marzo 2015, ci sono stati 54 tra discorsi, messaggi, omelie, lettere, meditazioni quotidiane, angelus e udienze nei quali papa Francesco ha fatto un esplicito e diretto riferimento alle lacrime, alla funzione purificatrice del pianto o, più in generale, all’umana e insieme divina esperienza del piangere. In tutti questi casi, tranne uno (il 10 settembre 2013, e comunque piuttosto marginale perché da contestualizzare nel divenire della sua argomentazione), la declinazione delle lacrime è stata usata nella sua forma positiva, progettuale e propositiva: «grazia» e «bontà», come ebbe a spiegare il 2 aprile 2013, «più che una scienza una saggezza», così definita il 20 febbraio 2014. Il pianto è sempre e comunque il linguaggio non verbale di un cuore traboccante non solo di preoccupazione, impotenza e dolore ma anche, e soprattutto, di amore, fiducia e tenerezza.Tutti gli uomini naturalmente piangono ma il saper piangere è grazia che appartiene solo a pochi: unicamente ai cuori ricchi di compassione, sensibili alle tragedie e alle esigenze della storia e in ardente e fedele ascolto della parola di Dio. «Abbiamo mai pianto?» (2 aprile 2013), «Chi di noi ha pianto?» (ripetuto ben cinque volte a Lampedusa l’8 luglio 2013), «Tu piangi?» (6 marzo 2014), «Io ho imparato a piangere?» (18 gennaio 2015), «Il pianto è nelle nostre preghiere?» (18 febbraio 2015): sono solo alcuni degli interrogativi attraverso i quali papa Francesco ha risvegliato i cuori dei credenti in Cristo dal torpore di una colpevole negligenza verso l’aurora di una sincera e urgente revisione di vita. Interrogativi tra l’altro che sono stati esternati secondo una formula che non prevedesse una sua personale astensione ma un pieno coinvolgimento in prima persona nella risposta.Mentre il pianto umanizza l’uomo, il non saper piangere viceversa sembra render l’uomo disumano. Anche «Dio piange» (4 febbraio 2014), Gesù piange, i personaggi presenti nelle pagine evangeliche piangono, i santi piangono, la Chiesa piange: l’uomo è chiamato a imparare esattamente da Dio e dalla Chiesa madre l’arte del pianto che lo rende più uomo. Ecco il paradosso che cocente appare emergere dal continuo rimando di papa Francesco all’incedere delle lacrime: mentre Dio sa piangere, l’«uomo globalizzato» diventa sempre più sterile e incapace di pianto (8 luglio 2013, 13 settembre 2014 e 18 gennaio 2015). Dio sembra così sfidare l’uomo in generale, e il cristiano in particolare, sul terreno che specificamente appartiene alla sua naturale dimensione: il piangere.La ricchezza dell’esperienza del piangere raccontata da papa Francesco si innesta nella plurisecolare tradizione della Chiesa, oltre che nella memoria viva e tagliente della parola di Dio. Nella sterminata bibliografia agiografica, si desidera rammentare particolarmente l’eredità di due santi ai quali, per appartenenza alla famiglia religiosa da lui fondata il primo e per scelta a motivo del nome assunto il secondo, direttamente papa Francesco volentieri attinge per tracciare il cammino di grazia delle lacrime: Ignazio di Loyola e Francesco d’Assisi.Ma papa Bergoglio non si ferma solo a parlare delle lacrime: lui è un uomo che parla con le lacrime! Ancora ferme e vivide restano impresse nella memoria le immagini di papa Francesco che, a Roma in piazza San Pietro o nel mondo nei suoi primi viaggi da pellegrino della fede, in silenzio abbraccia commosso malati e bambini, anziani e poveri. Tra tutti, come simbolo, scelgo l’episodio accaduto nella cattedrale di Tirana lo scorso 21 settembre 2014 quando, piangendo, il papa ha abbracciato un anziano sacerdote torturato nei lunghi anni della sua prigionia sotto la dittatura comunista. In aereo, durante il volo di ritorno da Tirana, così papa Francesco ricorda l’avvenimento: «Sentire parlare un martire del proprio martirio, è forte! Credo che tutti noi che eravamo lì, eravamo commossi: tutti. E quei testimoni parlavano come se parlassero di un altro, con una naturalezza, un’umiltà. A me ha fatto bene, questo!».Il linguaggio delle lacrime privo di scrittura ben si adatta allo stile comunicativo di papa Francesco, il quale parla più con i gesti del corpo che con le modulazioni dei pensieri in segni verbali. E poi il linguaggio di questo papa arriva spedito al cuore di tutti perché lui parla unicamente di ciò che direttamente conosce: il suo raccontare le lacrime appare così come il segno esteriore della sua personale conoscenza delle lacrime, che come fiotti continuano a zampillare dalla fonte del suo ministero.