Un prisma di alluminio dal fianco snello composto da due cilindri sfaccettati. Un ampio manico in bachelite, come il pomello sopra il coperchio. E, in cima, un beccuccio appena accennato con la punta rivolta verso il basso. La Moka, dal nome della città yemenita sul Mar Rosso (il maggior mercato del caffè nel Seicento) è figlia dell’
art déco, ha un’eleganza “gentile” e senza tempo. Si tratta, in realtà, di due cilindretti da avvitarsi a bullone dopo aver riempito un filtro con polvere di caffé e il bollitore con l’acqua. Semplice e funzionale. La leggendaria caffettiera inventata da Alfonso Bialetti nel 1933 – nata in Italia ma presto diffusasi in tutto il pianeta – compie dunque 80 anni e sembra resistere, dopo tre generazioni, alle mode che seguono con spasmodica velocità gli oggetti della casa. Ma per quanto tempo ancora? La moka rischia di essere travolta, infatti, dall’avanzare, nei ripiani delle cucine, delle più pratiche macchinette che l’espresso lo fanno con le cialde, come nei bar. Basta mettere dentro una capsula preconfezionata e pigiare un bottone. Sulla qualità del risultato, però, le opinioni sono discordi. Perché fare un buon caffé dipende da tanti fattori. Quello che esce dalla moka, se le dosi di acqua e miscela sono giuste, è quasi sempre eccellente. È questa una delle ragioni del suo successo. E non è un caso che la réclame televisiva della Bialetti affidata nel
Carosello degli anni ’60 e ’70 al simpatico omino coi baffi disegnato da Paul Campani (è la caricatura del figlio di Alfonso Bialetti, Renato), ammoniva, con la voce di Raffaele Pisu: «Sississì, sembra facile... fare un buon caffé!». E in effetti, da allora, la difficile “arte” di fare il caffé poteva essere alla portata di tutte le famiglie con la Moka Express... «È stata la prima macchina da espresso che produceva e produce un’ottima bevanda domestica, facile da usare, accattivante nel design e competitiva nel prezzo, anche per quanto riguarda il costo finale della tazzina; ecco perché ne sono state prodotte finora più di 250 milioni di pezzi» conferma Franco Balzarotti, uno dei più importanti collezionisti europei di caffettiere (vedi box). «Va detto però – spiega – che la primissima Bialetti, realizzata nel periodo che va dal 1933 al 1949-50 aveva un design totalmente diverso e venne sostituita dall’attuale, divenuta la “classica”, per problemi tecnici alla base e al manico». Ma il primissimo esemplare della serie, oggi, sembra introvabile: «Io, che posseggo oltre 900 pezzi, questo ancora non ce l’ho, e non ne ho mai visto uno esposto in altre collezioni...». Comunque, se gli osservatori del costume cominciano a cantare il
de profundis alla moka come oggetto di uso comune destinato a soccombere nello scontro con la modernità, ci sono ancora dei produttori disposti a scommettere sul caffé macinato, se non altro perché, in tempi di crisi e di tagli alle spese familiari, risulta più “risparmioso” delle cialde e, soprattutto, della tazzina ordinata al bar. Ma è proprio vero, come si pensa, che gli italiani sono i maggiori consumatori al mondo di questa bevanda? Secondo il brasiliano Roberio Silva, direttore esecutivo dell’
International Coffee Organisation «italiani e spagnoli, a causa delle attuali difficoltà economiche, importano il 2-3% in meno di caffé ogni anno, ma è solo un fatto temporaneo, perché il caffè appartiene alla loro cultura e al loro stile di vita e il consumo riprenderà». La Germania resta invece un mercato forte, come quello di Parigi. I più grandi fruitori di caffè in Europa, però (in base ai dati 2011-2012 forniti da Coffitalia, l’annuario settoriale di Beverfood, che riunisce i distributori di bevande italiani) risultano nientemeno che i finlandesi, con 10,58 kg pro-capite l’anno, seguiti dai danesi (9,9 kg) e dagli olandesi (9.85). Gli italiani sono al settimo posto con 5,77 kg a testa. Piccoli consumatori, dunque, ma esigenti. Perché da noi, soprattutto al Sud, sulla bontà della
tazzulella non si transige. «È per questo che ci sono ancora tante famiglie che usano la caffettiera napoletana da cui esce, se si rispetta attentamente il tradizionale, lungo rito di preparazione, una bevanda più pulita, mai bruciata, apparentemente più leggera, ma in realtà più intensa, profumata e gustosa» sostiene l’architetto, designer e docente universitario Riccardo Dalisi, che sulla caffettiera elogiata da Eduardo nel famoso monologo del balcone in Questi fantasmi, ha effettuato una accurata ricerca che gli valse, nel 1981, il Compasso d’oro. Anche la “napoletana”, dunque, oggi dice la sua... «Ormai, però, se ne fabbricano pochissime e anche i lattonieri che le costruiscono, a Napoli, seguendo un’antica tradizione, sono sempre meno» precisa Dalisi. Dovremo piangere presto anche la fine della caffettiera napoletana? «Forse sì, anche se per farla funzionare a regola d’arte, è sempre stata una questione di... lacrima» scherza l’architetto. Cioè? Ci spieghi meglio...«Sì, perché solo quando esce la gocciolina di acqua dalla valvola della caffettiera, e solo allora, né prima né dopo, bisogna toglierla dal fuoco e girarla; solo così, aspettando il momento giusto, viene
o’ café come si deve...».