sabato 15 ottobre 2016
Bob Dylan, il Nobel che divide Perché sì / La meta raggiunta dal chierico errante
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A vederla da vicino, sembrava ci fosse qualcosa di sproporzionato nella Hibbing High School, il grande complesso educativo che le compagnie minerarie fecero edificare nel 1918 a Hibbing, piccolo borgo del Minnesota a cento chilometri da Duluth e dal Lake Superior, dove il termometro d’inverno riesce a scendere a 46 gradi sotto zero, il 96 per cento degli abitanti sono da sempre bianchi e la popolazione non ha mai superato le 20 mila unità. Visitarla per quelli della mia generazione fu quasi un obbligo, perché lì negli anni Cinquanta aveva studiato il piccolo ebreo Robert Allen Zimmerman, quando ancora non si chiamava Bob Dylan. E qui, a dispetto di quella landa desolata e di quel grigiore eterno che non può che spingere un ragazzo a sognare altri mondi e se lo può a fuggire, bisogna lodare quella scuola, quei professori che gli hanno trasmesso quelle passioni omeriche, shakespeariane, quel gusto tutto americano per la grande letteratura che accende la fantasia e il talento di chi sa cosa farne, che lezione ricavarne, quali piccoli e grandi furti perpetrare dai versi di Blake, di Alceo, di Whitman, dalla Bibbia, dalla   cultura bassa come da quella alta.   Un’idrovora, un buco nero, il giovane Dylan, nella sua irridente e sfrontata marcia destinata a sovvertire la grande tradizione popolare   nordamericana coniugandola con il rock, la modernità, una meteora che solca i cieli seminando speranza, confusione, esaltazione, accecamento, bagliori impensabili in quell’intreccio mai districabile fra la parola e la musica, recitarcantando e Sprechgesang, canzone folk e rock ballad.  “Sono solo canzonette”, dicono da sempre i numerosi detrattori, oggi in armi e in lutto per il Nobel mancato a Philip Roth o a Cormac McCarthy (che lo meriterebbero ampiamente). E hanno ragione. Ma non sono le “canzonette” il marchio di Dylan, quelle sono semplicemente il veicolo su cui ha traghettato e depositato nel cuore della cultura orale americana (e immediatamente dopo mondiale) il suo densissimo universo in perenne mutazione, come un logografo dell’antica Grecia, curioso come Erodoto, sentenzioso come Plutarco, clericus vagans per inderogabile natura. Ancora oggi, a 75 anni, persegue con puntiglio il suo “never ending tour”, che lo conduce – evitiamo di proposito la pur trasparente metafora dell’ebreo errante – a esibirsi con la sua band in una tournée senza fine: un centinaio di date all’anno in tutto il mondo, attualmente siamo vicini ai tremila concerti a partire dal 1988. Certamente è un bene che il ricciuto menestrello di Blowin’ in the Wind e di Mister Tambourine Man, il profetico provocatore di Gates of Edene di Highway 61, il dolente cronista degli spenti amori di Tangled up in Blue e Simple Twist of Fate non esistano più. Da anni la voce di Dylan si è arrochita, l’intelligibilità delle liriche e delle melodie sfigurate, smozzicate, rivoltate come un guanto sfida duramente la buona volontà e l’ardore dei suoi fan, stuzzicandone la fedeltà e suscitando spesso abiure e dolorosi addii. In ogni caso – con buona pace di chi considera questo Premio Nobel un furto con destrezza ai danni dei veri scrittori – rimane difficile separare il musicista (a torto considerato un semplice folksinger) dal poeta. Come è difficile collocarlo, dargli una fisionomia, un profilo. Quando passò da Milano per una mostra a Palazzo Reale che ospitava alcuni suoi dipinti (di mediocre valore) si dileguò lasciando di sé la scia impalpabile della sua presenza. C’era davvero? Non c’era? Meglio di tutti l’ha rappresentato probabilmente il biopic del 2007 I’m not there  (tradotto in Italia come Io non sono qui), sette ritratti di sette diverse possibili identità di Bob Dylan, senza che mai ci si possa illudere di imprigionarne definitivamente l’essenza.  Così probabilmente vuole lui: anti-heideggerianamente, non esserci. A noi lascia il suo rutilante mondo di parole, quella “veggenza” rimbaudiana che esala da certe sue sulfuree quanto imperscrutabili visioni. Almeno tre generazioni sono cresciute con il martellante rintocco delle sue Chimes of Freedom, e ciascuno di noi ha inevitabilmente conservato qualcosa, un frammento, un verso, una reliquia della sua sterminata produzione, sapendo che – come accade con i grandi – contenerlo tutto è impresa impossibile. Accontentiamoci  di ascoltarlo. Perché come (dylanianamente?) proclamava Rilke nei suoi Sonetti a Orfeo, «Gesang ist Dasein»: cantare è esistere.
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