venerdì 20 maggio 2016
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Insolito e spiazzante questo Bambini di ferro, terzo romanzo della ventinovenne Viola Di Grado, la quale ha esordito cinque anni fa con Settanta Acrilico Trenta Lana, che aveva colpito pubblico e critica, non soltanto italiani, per la grande disinvoltura linguistica e prosodica, per la lussureggiante e colta disposizione lessicale, quelle d’un talento sorprendente, esibito quasi con sfrontatezza, se non insolenza. Un fatto mi parve certo da subito: l’estrema gioventù non impediva a Viola Di Grado una maturità conquistata come senza sforzo. Il secondo romanzo, Cuore cavo( 2013), che è la vera prova del nove per uno scrittore così giovane, confermò tutto: secondo formule ben collaudate. Ma ecco, proprio quando il rischio di fare il verso a se stessa si faceva più concreto, il drastico cambiamento di rotta: niente più prosa pirotecnica, di callida ipermodernità novecentesca, ma un impegno comunicativo, più etico che stilistico, in direzione di un’essenzialità rastremata. Quasi che Viola Di Grado abbia voluto lacerare l’involucro d’una lingua sontuosa e cangiante, per consentire alla nuda e dolorosa evidenza del pensiero, alle sue verità, di venire meglio alla luce. Un romanzo insolito e spiazzante, dunque, non soltanto nel quadro della giovane narrativa italiana, come già del resto, seppure in diverso modo, i romanzi precedenti, ma anche sotto il riguardo della storia della stessa scrittrice, già capace di innovare, e radicalmente, se stessa. La catanese Viola Di Grado ha vissuto a Kyoto, Leeds e Londra, dove si è laureata in Filosofia dell’Asia orientale: esperienze che hanno di sicuro molto contato per l’ambientazione della vicenda di Yuki e della piccola Sumiko in questo Giappone immaginario, divaricato tra il passato remoto nell’India settentrionale del 483 a.C. o nel Nepal meridionale del 563 a.C., il mondo del Buddha, e il futuro anteriore di una distopia cibernetica, quella, appunto, dei “bambini di ferro”. Chi sono i bambini di ferro? Sono gli « issendai », e cioè creature «dal cuore freddo e difettoso, impossibili da aggiustare». Sono, insomma, bambini rimasti orfani e sottoposti a programmi di accudimento materno artificiale, come la piccola Sumiko, riluttante a tutto, dal comunicare al nutrirsi, e come impetrata in se stessa, la quale, una mattina d’estate arriva all’Istituto Gokuraku: dove, appunto, arrivano infanti sui quali quel programma di rieducazione ha fallito. Lo dirige la sgradevole e onnipresente Sada, che ha come assistente Yuki, una giovane donna che, più di due decenni prima, ha subito lo stesso trattamento. La chiave del romanzo sta tutta nella dolorosa empatia che Sumiko induce subito in Yuki. Ecco: Yuki ha veramente superato gli antichi traumi e sciolto i vecchi e tenaci nodi? Che cosa nasconde il suo passato? E perché Sumiko diventa la catalizzatrice d’un processo che è una sorta di nuova inizializzazione alla vita? La maternità, tema già carissimo aViola Di Grado, è cruciale anche qui: sebbene il fine della scrittrice sembra più quello di un’indagine radicale sui sentimenti, studiati ora in relazione al rapporto bambinaandroide. Il ricorso al buddismo, che nulla concede a certe puerili mode occidentali oggi in voga, non ha nulla di consolatorio. Niente è ovvio in Bambini di ferro. © RIPRODUZIONE RISERVATA Viola Di Grado BAMBINI DI FERRO La nave di Teseo Pagine 256. Euro 18,00 Un romanzo insolito, dalla prosa essenziale, per la giovane scrittrice catanese Una bambina orfana, una tutrice e tante domande in un Giappone immaginario
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