Giunti a un certo punto del disastro, si torna a Flannery O’Connor. Si torna a Emily Dickinson, alle sorelle Brontë, a Faulkner, a Hawthorne, a Melville, a Conrad, persino a Hölderlin o ad Artaud. «Il libro è scritto da una che crede che ci fu una caduta, ci sia stata una Redenzione e ci sarà un giudizio», scrive la O’Connor a proposito del suo primo romanzo in una lettera risalente al 5 marzo del 1954.Dalla fine della modernità nessuna epoca come il primo decennio del XXI secolo ha mostrato quanto l’idea di metropoli stia nuocendo all’arte, compresa quella letteraria. Manhattan è diventato il luogo d’elezione di uomini come l’attuale
ceo di Goldman Sachs Lloyd Blankfein, vale a dire anche l’acquario dove uno scrittore può dissipare il tanto o poco talento a disposizione allargando gli estremi delle contraddizioni più stupide e ricorrenti, di conseguenza delle più distruttive da cui oggi può farsi possedere. Di solito si tratta di questo: bramare un tipo di fama il cui
iter è sempre meno conciliabile rispetto a ciò che dovrebbe formare la vera ambizione letteraria, e contemporaneamente, coltivare il sogno di mettere la firma proprio su uno di quei libri che solo gli scrittori con tanta fede nel proprio lavoro da ignorare gli specchietti per le allodole sono riusciti a scrivere. Come si può stringere il santino di Emily Dickinson macerandosi nel desiderio delle classifiche o delle comparsate televisive? Tutta l’esistenza di Flannery O’Connor sembra protetta dalla corazza della marginalità. Provinciale nell’epoca in cui le metropoli statunitensi raggiungono il loro massimo splendore (sono gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento), credente in un mondo di atei, cattolica in una regione di protestanti infervorati, malata mentre il salutismo sta diventando il salvacondotto per accedere al regno dei felici molti. Ma è la dedizione a ogni aspetto della propria esistenza e a ciò che le sta intorno – e dunque il naturale disinteresse per il superfluo, per il vuoto pneumatico dei desideri preconfezionati – a trattenerla altrove perfino mentre si avvicina al centro della vita culturale del suo tempo, scambiando opinioni con il poeta Robert Lowell, con il grecista e traduttore Robert Fitzgerald e con sua moglie Sally, con l’editore Robert Giroux; un altrove d’elezione che consente a Flannery O’Connor di alimentare il Canone anche grazie al fatto di non lasciarsi stritolare dai meccanismi che lo codificano. E si tratta di meccanismi sempre più spietati.La New York che, dopo averlo fatto re, distruggerà Truman Capote è ancora più feroce della Parigi balzachiana di
Illusioni perdute; quello era il tempo dei gazzettieri pescecani mentre questa è già l’epoca che farà dire a Billie Holiday: «Ho capito che ero uscita dal tunnel della droga quando una mattina non ce l’ho fatta più a sopportare la televisione». Se anche quel tipo di Città è tuttavia ormai un ricordo, spazzato a propria volta dall’onnicomprensivo deserto finanziario della metropoli contemporanea (centro e periferia), rimane indistruttibile, dunque vivo persino nella disgrazia, chiunque abbia il coraggio per continuare a difendere l’uomo, come la O’Connor, quando, sempre a proposito del suo romanzo
La saggezza nel sangue, scriveva: «Non credo che una sola parola di quello che ho detto contraddica lo spirito inequivocabile del libro, vale a dire che gli esseri umani hanno libera scelta».Proprio così, la libera scelta. Abbiamo sprecato decenni a farci ipnotizzare dai morti squali in formaldeide e dai loro invidiosi omologhi letterari e cinematografici la cui intenzione più riposta era convincerci di appartenere al loro stesso azzeramento di prospettiva – il falso mito secondo il quale non si sarebbe più liberi di scegliere e che, simili all’Alex di
Arancia meccanica dopo la Cura Ludovico, inginocchiarsi innanzi all’idolo (dunque annullarsi) non è la conseguenza di una debolezza ma dell’assenza di alternative. Ecco perché stiamo tornando ad amare scrittori come Flannery O’Connor: raccontando di uomini che cadono liberi di scegliere, restituiscono dignità ai nostri fallimenti, mostrando per converso la possibilità di un riscatto, restituendoci ai nostri limiti, dunque al profondo terribile mistero che ci appartiene inalienabilmente.Se non fossimo liberi di scegliere il concetto di limite neanche si porrebbe, e non saremmo quindi raccontabili. Ma lo siamo.