C’era una volta l’Europa dell’Est, un mondo grigio di ristrettezze e restrizioni che sopravviveva a fatica sotto il trionfalismo ingannevole delle dittature rosse. Un mondo che nell’immaginario collettivo è scomparso in una notte con il crollo del Muro di Berlino il 9 novembre del 1989, in modo improvviso come la mitica Atlantide. L’opinione più diffusa è che la Cortina di ferro si sia afflosciata di colpo come fosse di cartapesta e che la caduta dei regimi totalitari nell’altra metà d’Europa sia giunta in modo del tutto imprevisto. Il comunismo sembra sia morto d’infarto e tutti, a cominciare dai parenti più stretti, hanno celebrato con esibito sollievo e qualche malcelata preoccupazione i suoi funerali.
Ma, a dire il vero, il Muro non è crollato. L’espressione, anche se ormai entrata nel lessico abituale, ha una forza evocativa che non corrisponde alla realtà. Il Muro non è crollato, è stato abbattuto. Non in una notte ma nel corso di lunghi anni. Non è caduto, l’ha buttato giù gente cocciuta e coraggiosa che ha sfidato un potere illiberale e repressivo a mani nude [...]. L’Atlantide rossa, sparita e pressoché cancellata dalla nostra memoria, non era una landa desolata. Era un mondo segnato dalla penuria materiale che sotto la cappa oppressiva del potere nascondeva tesori di umanità autentica, maestri saggi dotati di grande fascino intellettuale e gente semplice istintivamente lontana dalle doppiezze del regime, credenti la cui fede cristiana alla fine è riuscita davvero a spostare le montagne e laici d’assoluta integrità morale alla ricerca del bene e del vero. Per non parlare della capacità d’ironia di fronte alle avversità, anche quelle più dure e ingiuste provocate dai governanti [...].
Sono stati «dieci anni che hanno sconvolto il mondo», se mi è consentito parafrasare John Reed, l’inviato più famoso del XX secolo, cronista eccezionale della rivoluzione bolscevica del 1917. Come allora sono ricomparsi proletari in azione e popoli in subbuglio. Ma a differenza dell’epopea descritta dal giornalista americano che fu amico di Lenin e Trotsky, questa volta la classe operaia non è andata all’assalto del Palazzo d’Inverno con le armi in pugno. Tutto all’opposto: non ha mosso un dito per attaccare, preferendo incrociare le braccia in attesa che il sedicente “governo degli operai e dei contadini” scendesse a negoziare con i diretti interessati e riconoscesse i loro fondamentali diritti. Fu la prima breccia nel Muro che iniziò a sgretolarsi sul litorale baltico già nel 1980 con la nascita di Solidarnosc, il sindacato libero polacco.
Nella storia irrompe quel che potremmo chiamare “il fattore W”. Come Walesa, come Wojtyla, l’uno il fondatore, l’altro il difensore di un nuovo movimento operaio che ben presto sarebbe diventato un movimento di popolo la cui voglia di libertà finirà per contagiare le altre nazioni dell’Europa sovietizzata. Stando li, sul terreno, si capiva subito che era in corso una rivoluzione, diversa però da tutte quelle che avevamo conosciuto. Chi manifestava contro il regime non si muoveva in forza di un’ideologia, non il liberalismo e neppure il nazionalismo, tanto meno il socialismo sia pure dal volto umano. Si trattava di un movimento di natura etica, per dirla con Jozef Tischner, considerato da tutti come il teorico di Solidarnosc [...].
Quella del 1989 è una rivoluzione pacifica dove, è stato detto, «non si è rotto neanche un vetro», a eccezione della sanguinosa rivolta in Romania (che fu in realtà un colpo di Stato travestito da sommossa popolare). C’e chi, come lo storico François Furet, vi ha visto il compimento della Rivoluzione francese di due secoli prima e chi, come lo storico e militante di Solidarnosc Bronislaw Geremek, l’ha definita «l’esatto contrario del 1789, una rivoluzione contro l’idea giacobina e i suoi metodi violenti sfociati nel Terrore». Lo studioso e giornalista inglese Timothy Garton Ash, profondo conoscitore dell’Est Europa cui ha dedicato vari saggi, ha inventato il termine “refolution”, a indicare una miscela di rivoluzione e riformismo che ha caratterizzato i movimenti dell’89. Mentre lo storico Krzysztof Pomian nega decisamente che si possa parlare di rivoluzione perché tutto è successo nel quadro di «una transizione negoziata» [...]. Ma probabilmente la definizione più azzeccata è quella del dissidente divenuto presidente della Cecoslovacchia Václav Havel che, da laico, non ha esitato a parlare di «miracolo» [...].
Ripensare al 1989 è tutt’altro che un esercizio rievocativo nella situazione attuale dove ogni giorno, a livello planetario, siamo confrontati a movimenti di protesta dal basso, espressione di una società civile che non si riconosce più nei partiti e nelle istituzioni tradizionali. Il riferimento è venuto spontaneo davanti alle “Primavere arabe” del 2011, un atto liberatorio collettivo che ha spezzato le catene della «mente prigioniera» (per dirla con le parole del grande scrittore polacco e premio Nobel per la letteratura Czeslaw Milosz) provocando la caduta dei regimi autoritari in Tunisia e in Egitto. Purtroppo, come ho potuto constatare di persona, i giovani di piazza Tahrir non hanno saputo prendere esempio da quanto successo nell’Est Europa illudendosi che la rivoluzione, generata nello spazio virtuale del web, avesse trovato i suoi leader nei blogger e potesse sopravvivere grazie ai social network. Internet è un formidabile strumento di comunicazione ma non è sufficiente per creare un soggetto politico. «Abbiamo innaffiato il deserto ma non siamo stati capaci di far crescere la pianta», è la sconsolata ammissione che ho raccolto qualche mese più tardi da coloro che avevano contribuito alla caduta di Mubarak senza però riuscire a ottenere un governo liberal-democratico.
Eppure la leggenda postmoderna secondo cui internet e sinonimo di democrazia sembra resistere, anche in casa nostra. Chi oggi vive di antipolitica farebbe bene a leggere quel che ha scritto a questo proposito Václav Havel nel suo Il potere dei senza potere, uno dei testi che ha ispirato la Rivoluzione di velluto in Cecoslovacchia: «Il cambiamento delle strutture deve partire dall’uomo, dal suo rapporto con se stesso e con gli altri». Per l’intellettuale boemo l’unica grande risorsa contro il potere è un io che ha scelto di vivere nella verità. Non basta indignarsi per quel che sta fuori, occorre guardare dentro di noi per scoprire «l’impensato della politica», come spiegava nel 2005 l’allora cardinale di Parigi, Jean-Marie Lustiger, parlando di Solidarnosc, «un movimento che ha saputo far emergere la realtà dell’esperienza umana nella sua dimensione integrale, sempre ignorata dall’ideologia marxista». E continuava: «Quel che mi lascia un gusto amaro in bocca è il fatto che, nell’era della globalizzazione, esiste lo stesso pericolo di misconoscere il reale della condizione umana e della sua dignità a beneficio delle nuove ideologie dominanti».
La riscoperta della propria dignità è la condizione fondamentale per una rivoluzione non violenta. Non solo nelle azioni ma anche nelle parole. L’estremismo verbale, l’insulto, l’attacco volgare, alla lunga generano odio e spirito di vendetta. «Noi non abbiamo bisogno di nemici per sentirci più grandi e più forti: il nostro movimento parla con tutti e non è contro nessuno», scriveva padre Tischner nella sua Etica della solidarietà, un vademecum indispensabile per chiunque voglia mettere in atto una rivoluzione non violenta. L’io cosciente della propria forza morale non teme il dialogo. Chi ha a cuore la dignità e la verità è disposto a negoziare su tutto il resto, anche con il peggior nemico. Così nel 1989 si è messo fine al comunismo. Un metodo che può valere anche per le nostre imperfette democrazie.