venerdì 23 gennaio 2015
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Non ho niente contro la moda, anzi... Sabato scorso arrivo ai cancelli del Maxxi con un po’ d’anticipo sull’apertura e vedo gente che già aspetta. Col passare del tempo, quelli che aspettano crescono molto di numero, passano il centinaio. «Perbacco! – esclamo fra me e me – Anche senza Caravaggio si formano le code all’ingresso dei musei». La cosa, devo essere sincero, mi rendeva felice. In questo momento al Maxxi sono in corso quattro o cinque mostre, la più importante, almeno come tema, è quella dedicata all’architettura fiorita durante lo sforzo bellico della Seconda guerra mondiale.
 
Non sarà la più spettacolare, forse è troppo didascalica e presenta in maggior parte materiali grafici e fotografici, una contenuta scelta di oggetti, ma – come scriveva il curatore della mostra Jean-Louis Cohen nel catalogo dell’edizione tenutasi qualche mese fa a Parigi –, se si va a cercare nei libri che fanno la storia dell’architettura del Novecento, si resta frustrati per come in tutti («senza eccezioni») vengano ignorati gli anni della guerra. Tutt’al più se ne parla sotto il profilo della ricostruzione delle città distrutte. Il fatto è che esiste una «questione bellica» dell’architettura, e con questa mostra Cohen intende colmare una grave lacuna.
 
Non ho niente contro la moda, anzi. Però. Sabato scorso, dopo essere entrato e aver visto con interesse la mostra Architettura in uniforme, mi sono guardato intorno e ho scoperto di essere l’unico spettatore in sala, come si suol dire. E quel nugolo di persone che aspettava davanti ai cancelli con me, dove diavolo erano andate? L’ho capito uscendo quando ho visto che alla biglietteria la coda era ancora lunga, erano tutti venuti a seguire una conferenza sulla moda anni Cinquanta, il secondo di un ciclo di sei incontri dedicati a «Le storie della moda».
 
Frustrazione, anche per me, come per Cohen. Doppia, rispetto a quella di Cohen, perché se da un lato mi dicevo che, in fondo, sono fuori tempo, la mia età di cinquantenne avanzato mi metteva nella condizione di essere interessato a cose che il pubblico delle generazioni ultime forse ritiene materiale archeologico (l’imprinting non si cancella, nella mia infanzia e adolescenza i racconti della Seconda guerra mondiale avevano un peso perché mia madre e mio padre l’avevano vissuta dal vero); dall’altro mi trovavo a constatare che l’interesse del tema è considerato marginale anche per addetti ai lavori e cultori dell’architettura, se è vero che l’edizione francese della mostra aveva un catalogo di oltre quattrocento pagine, che costituisce uno strumento fondamentale per documentarsi sull’argomento, mentre la versione «adattata dal Maxxi» si avvale di uno smilzo depliant di 24 pagine che riproduce sostanzialmente le tavole introduttive delle dodici sezioni della mostra. La domanda è tanto inevitabile quanto necessaria: perché? Non si può certo dire che l’Italia sia stata un Paese secondario nella rappresentazione di quel tema. Dunque?
 
Mi vengono due spiegazioni, non so dire quale delle due sia più attendibile. Carenza di fondi: un museo, progettato dall’archistar Zaha Hadid, che aveva grandi ambizioni e che ha fatto mostre importanti, soprattutto nei primi tempi della sua apertura (basti ricordare quella inaugurale sull’architettura di Luigi Moretti); un museo che ha attraversato momenti anche di burrasca e polemiche, propone eventi a grappolo in contemporanea (come quello sulla moda), poi si ritrova a fare una mostra di questo rilievo senza avere i soldi per stampare un catalogo che sarebbe molto utile agli studi, anche per l’approfondimento che poteva dare al caso italiano analizzandolo nei dettagli. La spiegazione, però, mi lascia dubbioso, non riesco a crederci fino in fondo. È possibile, ma dopo aver letto il saggio introduttivo di Cohen all’edizione francese, mi è venuto da pensare che la ragione potrebbe essere anche un’altra (senza escludere quella economica).
 
Cohen è uno dei massimi studiosi d’architettura contemporanei, nel catalogo francese spiega l’importanza e la sottovalutazione che è stata data al tema «bellico» novecentesco nella storiografia architettonica, e orchestra la sua analisi attorno alla questione della «mobilitazione totale», (definizione ripresa da Jünger e riferita alla Grande Guerra), sostenendo, a ragione, che la vera mobilitazione totale si ebbe nella Seconda guerra mondiale, quando tutti, nessuno escluso, architetti, imprenditori, idraulici, operai, contadini, intellettuali, donne, bambini e anziani, vennero “arruolati” nei rispettivi Paesi d’origine per combattere una guerra che era, come dissero gli americani entrandovi, per la libertà. Cohen, che è francese, dunque di libertà se ne intende (l’orgoglio nazionale di un francese non verrà mai meno), conclude la sua premessa affermando, per non dare sospetti di revisionismo, che quella «fu e resta una guerra giusta, che le forze della democrazia e dell’umanità dovettero combattere contro quelle dell’oppressione e della barbarie, anche al prezzo della distruzione delle città tedesche e giapponesi, il cui orrore incontestabile non cancella affatto i crimini delle forze dell’Asse».
 
Sembra di sentir parlare un americano che spiega la legittimità di sganciare le bombe su Hiroshima e Nagasaki, o un inglese che giustifica il bombardamento di Dresda. In realtà, Cohen pare piuttosto adombrare un nuovo stile francese, da Sarkozy in poi, ovvero quello di una Francia che vuole ergersi a paladina delle libertà sullo scacchiere mondiale e per questo è disposta a spedizioni come quelle libiche o, adesso, dopo i fatti di Parigi, a nuove crociate contro l’islamismo.
 
Così, il mio indomito spirito critico mi fa immaginare che quelle premesse, quella dichiarazione di legittimità della “guerra giusta” da parte di Cohen (mentre gli storici delle ultime generazioni, pur senza assolvere il nazismo, hanno tessuto una trama meno semplicistica), risultasse agli organizzatori del Maxxi poco digeribile e, per questo, abbiano deciso di non fare una edizione di quel catalogo di cui non sposano per intero le premesse, anche se ne accolgono la strutturazione tematica.
 
Architetti alle grandi manovre! Le Corbusier collaborò con Vichy, ma altri – senza dover ricordare il caso emblematico di Speer, si devono citare anche modernisti come Gropius, Neutra, Kahn – diedero contributi ben più specifici a fortificazioni, strumentazioni, adattamento di fabbriche alla nuova produzione bellica. Il fatto più importante che va notato, però, è che, forse, questa mentalità ce la siamo trascinata dietro per decenni, pensando città che fossero macchine funzionali, ridisegnando quartieri che nei pensieri degli architetti postbellici dovevano funzionare come company town, luoghi funzionali per la produzione e il consumo. A ben vedere, era un’idea «prebellica» e, come si sa, la tecnologia che arriva sul mercato è stata prima inventata e testata in campo militare.
 
Roma, Museo Maxxi
Architettura in uniforme
Progettare e costruire durante la seconda guerra mondiale
Fino al 3 maggio
 
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