Quando nel 1822 Joseph-Nicéphore Niépce riuscì a fissare su una lastra, sulla quale aveva spalmato bitume di Giudea, il paesaggio che scorgeva dalla sua finestra a Gras, non poteva immaginare la strada che avrebbe fatto la fotografia. Sapeva però, questo geniale inventore, di essere riuscito a catturare un miraggio: trattenere la luce imprigionata dalla
camera obscura, realizzando così un sogno durato secoli di artisti e di scienziati. Eh sì, il solito arabo! Eh sì, il solito Leonardo! E pure il solito Leon Battista Alberti che per primi avevano capito lo strabiliante fenomeno se con una stanza, tenuta chiusa e perfettamente buia, su una parete si fosse aperto uno spiraglio, un «piccolo spiraculo» come è detto nel
Codice Atlantico. Al-Hazen Ghazzali se ne serviva nell’XI secolo per studiare le eclissi del sole. E l’Alberti per «lucidare le prospettive naturali e diminuire le figure», come attesta il Vasari narrando di queste «cose capricciose, utili all’arte, e belle affatto». Leonardo ne spiega il segreto se si ha l’accortezza di praticare il «piccolo spiraculo rotondo» su una delle pareti di questa stanza: «Tutte le alluminate cose manderanno la loro similitudine per detto spiraculo e appariranno dentro all’abitazione alla contraria faccia, e saranno lì appunte sottosopra». Anni dopo Giovan Battista Della Porta nel
Magiae Naturalis spiega addirittura come ottenere il buco della grossezza di un dito utilizzando una «tauletta di piombo overo di rame». Lo studioso napoletano ci assicura: «Tutte le cose che di fuori sono illuminate dal sole, le vedrai dentro, vedrai che coloro che passeggiano per le strade, rivolti con la testa in giù come antipodi, e le cose destra appariranno sinistre, e tutte le cose rivoltate, e quanti saranno distanti dal buco, tanto appariranno più grandi». Quando la
camera obscura si farà sempre più piccola, vuoi per aiutare i pittori a ricavar ritratti, vuoi per agevolare gli astronomi a studiare le eclissi o gli architetti a tracciare precise prospettive, e quando si troverà il modo per fissare su un supporto la luce che passa dal «piccolo spiraculo» nascerà la fotografia. Quel giorno a Gras, il geniale Niépce utilizzò appunto una
camera obscura piccola come una cassetta di legno che aveva su una faccia un piccolo foro. A dirla in greco,
stenos opaios. Oggi diciamo appunto foro stenopeico. La tecnica fotografica comincia a fare presto progressivi balzi in avanti sia nel trovare supporti chimici più sensibili, sia nell’inventare obiettivi da collocare davanti al semplice foro così da ridurre i tempi di posa e migliorare la qualità dell’immagine facendola più nitida e dettagliata. La fotografia con foro stenopeico, come quella di Niépce, non è mai tramontata anche nell’epoca del digitale e dei pixel il cui numero è sempre più mirabolante, tanto che ogni anno si celebra con iniziative in tutti i Paesi la Giornata Mondiale della Fotografia Stenopeica. Quest’anno cadrà il 28 aprile. Segno che questa fotografia, che rinuncia deliberatamente alla precisione e alla nitidezza, non è mai morta. Tant’è che esistono in commercio per pochi euro tappi con foro stenopeico ottenuto con la precisione del laser da applicare alla macchina digitale rinunciando all’obiettivo. Certo, è come attaccare i buoi davanti a una Ferrari ma, come la Giornata mondiale dedicata a questo tipo di fotografia dimostra, c’è evidentemente tanta gente ancora attratta dal fascino del carro. La foto stenopeica fu un espediente per schiere di fotografi che accusavano lo stato di inferiorità proclamato da Baudelaire e dal quale volevano sottrarsi. Oggi la foto stenopeica è una fotografia che oscilla (secondo chi la pratica) tra il gioco e la ricerca formale, ed è sorprendente che abbia seguaci in tempi in cui la fotografia (anche con l’uso dei cellulari) è alla portata di tutti. Il tutto nell’epoca della grande sofisticazione tecnologica, come dimostrano le moderne e complesse reflex. Lo slogan di George Eastman, «Voi premete il pulsante, noi facciamo il resto», può essere ancora valido se si azzecca qual è il pulsante. La fotografia fece il primo ingresso ufficiale al Salon di Parigi del 1859. Andò a visitarlo anche Charles Baudelaire che ne uscì disgustato. Entrò a gamba tesa nel dibattito se la fotografia potesse considerarsi arte, per negarlo: «Se si concede alla fotografia di sostituire l’arte in qualunque delle sue funzioni, essa presto la soppianterà o la corromperà del tutto, grazie all’alleanza naturale che troverà nell’idiozia della moltitudine». Per Baudelaire l’industria fotografica non era altro che «il rifugio di tutti i pittori mancati, scarsamente dotati o troppo pigri per compiere i loro studi». Non può essere considerata arte perché imita specularmente la natura. Il poeta dei
Fiori del Male però predica bene e razzola male perché non disdegna poi di posare spesso per Nadar, il fotografo più alla moda di Parigi. La tegola sui fotografi annichiliti resta però pesante e difficile da sopportare ritenendosi essi artisti alla pari dei pittori e degli scultori. Il pittorialismo della fine dell’Ottocento è suscitato anche dal desiderio di riscattarsi agli occhi dei detrattori. Pure Eugéne Delacroix li condanna: la tecnica impedisce all’arte di comunicare con l’anima. Salvo poi rammaricarsi che questa «mirabile invenzione» fosse arrivata così tardi. Cameron, Emerson, Davison utilizzano il flou, anche una deliberata sfocatura e una stampa morbida per evocare i Corot e i Millet. Sono certamente esempi di interventi del fotografo sulla tecnica perché la foto ottenuta non sia semplicemente un’operazione meccanica il cui risultato è affidato esclusivamente all’apparecchio. Alla fine degli anni ’80 dell’Ottocento per far fronte a questa esigenza estetica ritorna il foro stenoscopico con l’obiettivo Stenopé-Photographe che presenta buchi da 0,3 a 0,5 millimetri. Nel 1904 è sul mercato l’obiettivo Pinhole di Alfred Watkins. La fotografia stenopeica diventa una moda, e nel 1905 in Italia Luigi Sassi dà alle stampe il
Manuale della Fotografia senza obiettivo. È dal nome di questo obiettivo che prende il nome la Giornata mondiale, il
Worldwide Pinhole Photography Day. E Pinhole diventa un mondo fotografico a sé che è gioco, ricerca estetica, sperimentazione e – se si vuole – anche ribellione a una straripante e predominante tecnologia.