giovedì 14 novembre 2013
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Se, girando per l’Italia, ci capita di osservare come sono le nostre città, anche a uno sguardo distratto ci sarà subito chiaro che la tanto vituperata "architettura moderna", la causa di ogni male nel giudizio di tanti nostri contemporanei, è un oggetto quasi inafferrabile. Dov’è l’architettura moderna? Si potrebbe dire che è ovunque e in nessun luogo. E la risposta sarebbe corretta. Perché l’architettura moderna che di solito viene identificata coi nomi altisonanti di Le Corbusier, Gropius, Mies van der Rohe, Aalto, e mettiamoci anche Terragni e Michelucci e altri per quanto riguarda casa nostra, è un oggetto raro, se non rarissimo nelle nostre città. In genere è un inciso collocato nel tessuto urbano più o meno storico, in qualche caso un segmento di esso dentro cui si può cogliere, magari, anche una dialettica di stili e segni di volta in volta affini o discordi con quelli del passato. Le nostre città sono cresciute con una certa spontaneità, nonostante piani regolatori del dopoguerra disegnati per tenere a freno la bulimia edilizia indotta dalla rilevanza economica che l’industria del costruire (spesso con tecniche e modi tradizionali), ha nel nostro Paese. La famosa battuta dispregiativa secondo cui le nostre periferie sono il prodotto della cultura dei geometri ha del vero (soprattutto nei decenni del boom economico e della recessione anni Settanta), ma quelle di oggi si potrebbe dire che siano il prodotto di una cultura dei geometri che si sono nel frattempo laureati alla scuola dell’effimero televisivo, non meno bulimico, nello stile pantagruelico e fantasy tipico delle archistar.Che cosa resta, dunque, del moderno? La sua anima antifrastica, vien da dire, o il vernacolare, argomento di un importante libro che Michelangelo Sabatino, storico dell’Università di Houston, ha scritto qualche anno fa e ora viene tradotto dall’editore Franco Angeli (Orgoglio della modestia, pagine 284, euro 35). Il vernacolare si declina in mille varianti secondo l’antico, il regionale, lo spontaneo, il rustico, l’autocostruito, il mediterraneo, il popolare. A dire il vero, in Italia il moderno ha vinto paradossalmente nella sua più evidente antagonista: la conservazione dei centri storici e la tutela delle mille diverse espressioni dell’architettura rurale, la casa colonica, il borgo di paese, la fattoria della piccola impresa familiare che creò il tessuto economico del nostro Paese. Negli anni Ottanta, quando col postmoderno e la cultura dei centri storici, si parlava spesso di "ritorno all’antico", una delle parole più in voga nel dibattito architettonico che prendeva atto della crisi modernista era "regionalismo", cui si aggiungeva in qualche caso l’aggettivo "critico" (per dargli comunque una patina moderna), mentre altri parlavano volentieri di vernacolare. Al di là dell’Atlantico, l’interpretazione dell’architettura commerciale di Las Vegas data dall’architetto Robert Venturi, vedeva nel vernacolare una singolare sintesi di moderno, citazionismo e un pizzico di kitsch. Durò un decennio, poi il vento del decostruttivismo s’impose e fu l’inizio della svolta ipercapitalista dell’architettura fatta di potenza tecnologica e delirio delle immagini.Di fronte a questa apoteosi del grande e del sensazionale, inedito vitello d’oro dell’architettura, un titolo come quello che Michelangelo Sabatino dà al suo libro ha un potenziale critico altissimo, e il fatto che si parli di «architettura moderna italiana e tradizione vernacolare» non fa che aumentare la sua forza contundente. Con pochi concetti Sabatino fotografa alla perfezione la situazione dell’architettura italiana, soprattutto quella della prima metà del Novecento, in particolare del Ventennio. La tradizione vernacolare, cioè l’architettura rurale ma anche quella connotata dalle aree geografiche o nata spontaneamente, «è servita – scrive – come modello per architetture spietatamente moderne ma anche per quelle reazionarie». Moderno e vernacolare insieme? Un tempo si vedevano reciprocamente come il fumo negli occhi. Ma qui stiamo parlando dell’Italia, il Paese delle eccezioni.Fu per definire il vernacolare come sintesi di popolare e colto che Lionello Venturi usò negli anni Trenta l’espressione «orgoglio della modestia», e si riferiva però al vernacolare caro a un architetto come Giuseppe Pagano, che con Edoardo Persico diresse la rivista "Casabella": Pagano nel 1936 aveva dedicato un volume proprio all’Architettura rurale in Italia edito da Hoepli. Sabatino mette a registro una serie di riferimenti culturali, ritrova nel cinema di Antonioni, Fellini, Godard i lacerti visivi dell’architettura vernacolare italiana, ricorda esempi come la casa di Curzio Malaparte a Capri disegnata da Adalberto Libera, su Punta Massullo, le case coloniche dell’Agro Pontino volute dal fascismo, l’utilizzo di certi stilemi popolari nell’edilizia del monumentalista Marcello Piacentini (segnali ante litteram di postmoderno), la mediterraneità dell’E42, la ricerca di Franco Albini e il neorealismo di Ludovico Quaroni. Ma, dice Sabatino, il vernacolare è sempre stato emarginato nel giudizio degli storici d’architettura, sebbene già verso la fine degli anni Sessanta Vittorio Gregotti scrivesse che l’architettura spontanea –- cui Giancarlo De Carlo aveva dedicato un libro nel 1951 – «era la naturale alleata dell’architettura razionale in quanto dimostrava una connessione tra il modo naturale e il modo funzionale di costruire». Sabatino parla di «modernità ibrida» e ritrova in certe esperienze nordiche, venate di romanticismo, quell’affinità elettiva che congiunge i pensieri di Ruskin e William Morris nell’Ottocento, le ricerche storiografiche del francese Henri Focillon e del suo discepolo americano George Kubler nel Novecento, e il nostro «ruralismo» architettonico.Per il fascismo, alla fine, la dialettica non era fra moderno e vernacolare, ma fra classicismo e vernacolare (le ipoteche rurali sottoscritte da Mussolini rendevano ardua la scelta). Per Pagano l’architettura rurale e spontanea dava allo spirito moderno un esempio di sobrietà. Per Mussolini, che per molto tempo fu in dubbio se sposare o meno l’architettura moderna come arte di Stato, il classicismo monumentale, la sua retorica, apparve più efficace per propagandare la visione del fascismo come "impero". Ma Sabatino ritrova germi vernacolari anche in Le Corbusier, e ricorda l’interesse di James Stirling per l’architettura anonima, tema di una celebre mostra intitolata «l’architettura senza architetti». Fu il leitmotiv di vent’anni di discussioni che opponevano internazionalismo a regionalismo (ma sempre nel moderno).L’architetto moderno, visto come tecnocrate algido e razionale, dunque ha un cuore tenero? Di certo Le Corbusier, formatosi fra gli orologiai di La Chaux-de-Fonds, avvertiva il fascino poetico delle «cose ordinarie» e dell’antico: dopo le teorie della standardizzazione fece la classica mossa del cavallo e tirò fuori dal cappello il "regionalismo moderno" di Ronchamp (assai colto e ispirato). In Italia, non fu necessario, bastò, apparentemente, la storia culturale di un Paese "mosaico" industrializzato con un secolo di ritardo. Pasolini, però, che giocava a calcio nei campetti di borgata, sentiva che l’antica civiltà rurale era alla fine. E le nostre periferie dicono che aveva ragione. Di spontaneo oggi resta, spesso, solo il caos, mentre le case coloniche sono state ristrutturale e ripulite in ville di lusso per benestanti e magnati, con tanto di piscina e campo da tennis al posto dei frutteti.
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