Riporta il cavallo in galleria, Jannis Kounellis. Succede per l’inaugurazione. Poi dell’evento, per tutta la durata dell’esposizione, rimane una documentazione fotografica e video. Di cavalli ne aveva portati dodici, nel 1969, nella romana galleria-garage dell’Attico in una mostra finita nei testi di storia dell’arte. L’evento di allora aveva soprattutto una valenza simbolica mentre quello di oggi ha un significato eminentemente evocativo. Tra l’uno e l’altro sono trascorse decine di anni, un lasso di tempo lungo, lunghissimo, capace di usurare energie, coerenza e rigore. Ma l’impressione che si ricava, di fronte a questo che è il suo più recente intervento, è che l’opera di Kounellis si rigeneri continuamente e che sia in continua evoluzione, «ma non in senso darwiniano – ha precisato l’artista – in quanto il lavoro d’arte ha una dignità poetica, non scientifica ». Così che la sua arte, come il grande romanzo europeo («mi appassionano i romanzi di Hugo», dice) è un atto che si riscrive a ogni lettura, sempre fedele a se stesso, ma sempre diverso e disponibile al confronto con il mondo che cambia.
E qui a Pesaro siamo di fronte a un Kounellis particolarmente ispirato. Nella città marchigiana, con cui ha un rapporto piuttosto stretto (in passato ha esposto un paio di volte e sarà presente alla Galleria di Franca Mancini in agosto in una mostra insieme a Kosuth e Pistoletto) è stato invitato da Ludovico Pratesi per celebrare il ventesimo anniversario del Centro Arti Visive Pescheria di cui Pratesi è il direttore artistico. L’ottantenne artista di origine greca (è nato al Pireo nel 1936), ma residente a Roma dagli anni Cinquanta, mescolando esperienze e memorie personali e collettive, interviene nello spazio pesarese richiamandosi alla realtà industriale della città e lo fa nel suo modo di sentire la realtà come dramma, nel senso anche scenico del termine («La galleria è una cavità teatrale, drammatica», ha scritto). La sua è una grande narrazione che, afferma Pratesi, «ha interpretato la Pescheria come un luogo dinamico, dove portare un frammento della città per farne rivivere la memoria» e che non prevede la figura dell’uomo, ma la sua presenza-assenza è palpabile. Come accade nel grande, rettangolare loggiato che l’artista ha occupato ricreando un paesaggio postindustriale. È costituito da parti di macchinari e ingranaggi abbandonati a terra, avvolti come fossero sudari da leggeri, bianchi lenzuoli mentre dall’alto incombono «come un volo di corvi» (sono parole dell’artista) una serie di altalene su cui ciondolano sacchi di carbone.
Operando su pesi, equilibri, spazi, Kounellis mette in scena una partitura visiva che intende testimoniare la realtà, anziché riprodurne i simulacri (come faceva la Pop art), senza retorica e osservanza mimetica. Questa poetica, all’inizio del suo percorso creativo, Kounellis la esprimeva con lettere e numeri che rappresentavano una specie di sillabario dell’universo linguistico urbano, uno stacco oggettivo dalla materia, tutta soggettiva e romantica dell’Informale che allora era la forma d’arte imperante. In seguito ha cominciato a esporre anche se stesso, insieme a Pascali, e poi a utilizzare i materiali più vari: balle di cotone, frammenti di barche naufragate, carbone, lastre di ferro a forma di fiore da cui uscivano lingue di fuoco, cartone, giardini di cactus, pappagalli e, come abbiamo ricordato, cavalli. Il cavallo, appunto, che qui nell’ex chiesa del Suffragio comunicante con il loggiato ritorna per trainare alcuni carrelli, simili a quelli usati nelle fabbriche, su cui sono ammucchiati cappotti neri sgualciti e consumati. È una sorta di rito funebre («come quelli che si fanno a Napoli», dice Kounellis) che si svolge senza soluzione di continuità sul percorso circolare di un binario che riprende il motivo della pianta dodecagonale della chiesa (pare sia l’unica in Italia). Queste impegnative installazioni pesaresi ci confermano che Kounellis ha indirizzato tutta la sua ricerca lungo un percorso teso a spingere l’arte sempre di più verso la vita, appropriandosi degli oggetti e dei materiali della realtà e dei sentimenti che determinano la qualità dell’habitat umano. Ma l’artista non opera una sintesi tra la concretezza degli oggetti e dei materiali e l’impalpabilità dei sentimenti. Anzi oppone gli uni agli altri: all’immobilità temporale degli oggetti e dei materiali contrappone i sentimenti, le gioie e più spesso le malinconie, che nascono dal vivere quotidiano. E allora ci piace ricordare le parole, che consideriamo tra le più pertinenti in proposito, di Giuliano Briganti secondo cui quelle di Kounellis «sono opere che per vie misteriose, ineffabili, sfiorano temi eterni: il senso del dolore, il pensiero della morte, il ricordo dell’infanzia, l’essenzialità del mondo arcaico, la nostalgia di una perduta totalità, la fiamma divorante del tempo…il risultato è quello di una profonda emozione, di una fuggevole, volatile poesia…».