Al siriano Khaled Khalifa le distinzioni non piacciono troppo. «Finiscono per fare il gioco di chi ha trasformato il mio Paese in un campo di battaglia », dichiara in una pausa di Incroci di civiltà, il festival letterario che si conclude oggi a Venezia e che quest’anno è stato caratterizzato dalla mancata partecipazione dello scrittore azero Akram Aylisli, bloccato in aeroporto all’ultimo momento dalle autorità di Baku. Una situazione che Khalifa conosce bene: in patria le sue prese di posizione e i suoi libri (in particolare il romanzo
Elogio dell’odio, edito in Italia da Bompiani) gli sono costate critiche e censure. «Ma non è mia intenzione lasciare la Siria», dichiara. Da qualche tempo si trova a Boston, negli Stati Uniti, grazie a una borsa di studio che gli permette di lavorare a due diversi progetti. Il primo è un nuovo romanzo, che racconterà il dramma siriano in una dimensione corale. L’altro è il diario che Khalifa sta tenendo da quando, cinque anni fa, a Damasco sono iniziate le proteste di piazza. «Potrebbe intitolarsi
Un uomo solo in cerca di una manifestazione – dice –. Quell’uomo sono io, si capisce».
Significa che in Siria le manifestazioni non ci sono più? «Al contrario, potrei elencarle più di cento località nelle quali, anche in questi giorni, la società civile non manca di far sentire la propria voce. Il problema semmai è che di questo, e di molto altro, i media occidentali non fanno parola».
Perché? «Perché la situazione in Siria è oggetto di un fraintendimento tanto preoccupante quanto repentino. Se provassimo a rivedere quello che le grandi testate internazionali hanno scritto sul mio Paese dal 2011 in poi, ci renderemmo conto che in una prima fase, durata fino al 2013, è prevalso il racconto della protesta contro il regime di Assad. Dopo di che gli stessi giornali e gli stessi giornalisti hanno iniziato a parlare di guerra civile. Curioso, non trova?».
Lei come lo spiega? «È l’alibi dell’Occidente. Le forze governative sono responsabili di atrocità che andrebbero giudicate da un tribunale internazionale, ma la rappresentazione del conflitto interno permette di scongiurare un’eventualità di questo tipo. Anche sull’avanzata del jihadismo ci sono molti equivoci, molte ambiguità. Come mai, per esempio, non si fa quasi mai cenno al ruolo dell’Iran? Il paradosso è che i testimoni ci sono, ma per un motivo o per l’altro sono messi nella condizione di adeguarsi alla versione ufficiale ».
Sta dicendo che gli intellettuali hanno vita difficile? «Le difficoltà degli intellettuali sono del tutto trascurabili rispetto alle sofferenze del popolo siriano. Guardi me: continuo a scrivere, a parlare dei miei libri. Più che altro, sono ancora vivo. A Damasco abito in una zona solitamente risparmiata dai bombardamenti, e già questa è una fortuna. Va ancora meglio quando c’è brutto tempo, perché la pioggia impedisce agli aerei di decollare. Ecco perché non riesco a distinguere la condizione degli intellettuali da quella dei comuni cittadini. E faccio fatica anche ad accettare la tendenza a isolare i problemi di singole comunità, si tratti degli armeni, dei curdi o degli stessi cristiani. Ho a cuore il destino dei siriani, semplicemente, e non mi interessa affatto che questo Paese sia oggi considerato il centro del mondo. Noi non vogliamo essere il centro del mondo. Vogliamo che i nostri diritti siano rispettati, vogliamo vivere in pace. E non vogliamo essere abbandonati».
A che cosa si riferisce? «All’Europa, in primo luogo, che non può più accontentarsi di un ruolo di sudditanza nei confronti degli Stati Uniti. Dove non arriva la lungimiranza politica, dovrebbe arriva la geografia, non crede? La Siria è a un passo dall’Europa, quello che accade a Damasco non può non avere ripercussioni qui da voi. Non penso solo ai profughi, per quanto consideri del tutto illusorio l’accordo raggiunto con la Turchia. Anziché preoccuparci di come arrestare la migrazione, dovremmo sforzarci di stabilire le condizioni che rendano possibile il rimpatrio dei fuggiaschi. Ma questo significherebbe immaginare una Siria democratica, un’eventualità che complessivamente non mi pare troppo gradita».
Quali sono oggi i passi più urgenti?«Di urgente c’è anzitutto il recupero di una corretta dimensione storica. Bisogna tornare indietro di almeno trent’anni e tentare di ricostruire con onestà quello che è accaduto in quel periodo. Penso, da una parte, alla nascita del terrorismo jihadista, che affonda le radici nella guerra in Afghanistan. Ma penso anche alla strage di Hama, uno degli episodi più terribili della storia siriana: nessuno è mai stato incriminato per quei morti, nessuno ha mai pagato. Fino a quando gli assassini di Hama non saranno giudicati, la ferita della Siria non potrà mai rimarginarsi».