Anticipiamo alcuni brani di monsignor Loris Francesco Capovilla, già segretario particolare di papa Giovanni XXIII, sul presidente americano John Kennedy. Il testo è compreso nel volume di Mauro Colombo e Rita Salerno, «Il giorno in cui ci svegliammo dal sogno», che esce in questi giorni dalle edizioni Monti di Varese (pagine 230, euro 16,50).Nel terzo anno di Pontificato giovanneo (1960), il quarantacinquenne John Fitzgerald Kennedy venne eletto presidente degli Stati Uniti d’America. Si disse allora che in ambienti cattolici, negli Usa e nel mondo, si temessero difficoltà a motivo dell’area religiosa del neopresidente, e che anche in Vaticano ci fosse chi gli avrebbe preferito Richard Milhous Nixon, candidato repubblicano. Secondo la prassi, il Papa inviò all’eletto un caloroso messaggio, senza dare rilievo al suo status di cattolico: «Mi congratulo con voi per la elezione a Presidente degli Stati Uniti d’America. Con la preghiera che l’Altissimo Iddio voglia assistervi nel superare le difficoltà del vostro alto ufficio, esprimo cordiali sinceri auguri per il benessere vostro e della vostra famiglia e per la felicità e la prosperità dell’amatissimo Popolo Americano». Quattro eventi intrecciati a Papa Giovanni restano impressi nella memoria: l’aver Kennedy accolta con simpatia (condivisa da Nikita Kruscev) la mediazione papale sui generis, durante la crisi dei missili di Cuba; il valido apporto dato alla liberazione dell’arcivescovo ucraino Josyf Slipyj dalla segregazione impostagli dalle autorità dell’Urss; la presentazione della Pacem in Terris che volle fare lui stesso a Boston e la sua singolare testimonianza («Questa enciclica mi rende fiero di essere cattolico»); infine, il conforto procurato a papa Giovanni quasi morente, con lettera recata a mano dal cardinale Richard Cushing, in cui asseriva che l’Esecutivo americano si dissociava nettamente da commenti sfavorevoli, sollevati qua e là, sulle iniziative pastorali del Pontefice, riferiti in particolare alla situazione politica italiana ed europea. Per l’appoggio dato alla liberazione di Slipyj, a Natale 1962, a mezzo dello scrittore Norman Cousins, il Papa inviò a Kennedy una icona orientale. Il presidente, nel ringraziare, confidò di averla collocata nel suo appartamento privato. Tramite canali diplomatici ed ecclesiastici, Kennedy aveva fatto sapere che desiderava vivamente recarsi in Vaticano. Venne fissata la data, ma l’aggravarsi (maggio 1963) della malattia di Giovanni XXIII fece annullare la visita. Giovanni XXIII morì il 3 giugno 1963; John Kennedy venne assassinato sei mesi dopo. A cinquant’anni di distanza rivedo le mie note di quel giorno e dei successivi e le trovo conformi alle valutazioni che mi si son maturate dentro col passare del tempo. Qualunque cosa si pensi del presidente americano, ho la persuasione che l’altissimo ufficio avesse acceso in lui il corrispondente senso di responsabilità, che ne determinò il pensare e l’operare. Giovanni XXIII aveva apprezzato la conclusione, quale venne riportata dalla stampa di allora, del volume di Kennedy Profiles in courage: «Nel vivere, crescere ed essere fonte di la vera democrazia pone la sua fede nel popolo: fede che presuppone che il popolo non sceglierà semplicemente uomini che rappresenteranno le sue opinioni con abilità e fedeltà, ma eleggerà anche uomini che eserciteranno un giudizio coscienzioso; fede che presuppone che il popolo non condannerà coloro la cui devozione a un idea condurrà ad agire in maniera impopolare, e saprà ricompensare il coraggio, rispettare l’onore e infine riconoscere il diritto...».
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