Keith Haring, Untitled, 1984, smalto su legno intagliato,112 x 145 cm © Keith Haring Foundation
Magliette, tazze, scarpe. Non c’è superficie e oggetto su cui non siano comparsi gli “omini” di Keith Haring. Una superesposizione che ha fatto dell’artista americano, insieme alla morte per Aids a 31 anni nel 1990, un figura di culto pop, ma che allo stesso tempo rischia di nebu-lizzarla. La grande mostra che ha aperto in questi giorni a Milan,o oltre un centinaio di pezzi, molti di grande formato, si propone – riuscendoci – di riportare alla qualità profonda dell’arte di Haring al di là del fenomeno di costume, uscendo dall’immagine di “graffitaro” per restituirne una di artista colto e consapevole.
Gianni Mercurio, curatore della mostra (catalogo Giunti -24Ore Cultura, notevole), parla di «neoumanesimo» per Haring. Un’arte che ha l’uomo al centro, a partire dal fatto il pittogramma “uomo” è il primo vocabolo e il più presente. Ma umanistica anche per il rapporto che ha con la storia della cultura, esemplificato nel percorso espositivo da un confronto diretto con l’antico (la Colonna Traiana in rapporto all’idea di fregio continuo dei murali, la ceramica etrusca…), l’arte primitiva, i moderni a partire da Picasso.
La “lingua” stilistica di Haring non è un fatto isolato nell’arte contemporanea. Il tedesco A.R. Penck costituisce un precedente diretto e singolarmente affine: il tratto spesso e una sinteticità primitivista che scende fino al graffito tribale e preistorico e alla composizione, negli esiti più astratti, di una sorta di alfabeto segnico, mentre dal punto di vista cromatico si assiste a un pendolarismo tra un colorismo acceso e una bicromia bianco/nero assoluta. Ma dove A.R. Penck si muove in un orizzonte culturale europeo – il suo guardare all’arte primitiva discende direttamente dall’espressionismo – e quindi “moderno”, Haring è invece completamente americano e postmoderno. Se in A.R. Penck il tratto è xilografico, in Haring diventa quello fluido del pennarello. In lui il tribale passa attraverso il pop e il fumetto: lo stesso Topolino si tribalizza e diventa il segno totemico di una nuova tribù. Le teorie di omini danzanti sembrano compiere un rito.Ma tribalità e totem perdono la componente surrealista (ancora determinante in Pollock, ammirato da Haring specie nella fase pre- dripping) e sono ricondotte a una inedita dimensione metropolitana. Le gallerie e le banchine della underground di Manhattan sono la nuova Lascaux. Anche l’Aids è un mostro metropolitano, la versione della peste medievale aggiornata a un mondo di spray e cemento. L’arte mesoamericana e precolombiana come Leger, il Medioevo fantastico come Mondrian, Dubuffet come Tobey. La citazione in Haring non è desiderio di legittimazione o gioco quanto coscienza e conoscenza, frullate nel vortice di una città in disgregazione. Nel momento in cui sceglie il disegno, Haring si radica nella pratica più antica e basilare. La strada è un crogiolo. Haring vi arriva dalla galleria e dall’accademia, non viceversa. Desideroso di fare un’arte colta e antielitaria, usa la storia come serbatoio di immagini e suggestioni. Da americano Haring si pone il problema di fare parte del flusso senza il vincolo di una tradizione.
I meccanismi appropriativi tipici della cultura statunitense (nel saggio in catalogo Gianni Mercurio sottolinea giustamente le affinità e le differenze con Roy Lichtenstein) tendono a schiacciare la prospettiva storica e geografica, in un progressivo azzeramento delle distanze tra alto e basso, colto e popular. Il mondo a due dimensioni in cui Haring (ma che già troviamo nella pratica cromatica del suo mentore Warhol) fa vivere le proprie figure, sculture comprese, risponde a tali dinamiche. In questa assenza di alto-basso, vicino-lontano, sopra-sotto sta la natura postmoderna di Keith Haring, la quale a sua volta è alla base di altri artisti che lavorano sul fumetto, come l’estetica superflat di Murakami, specchio, come dice lo stesso artista, del «vuoto superficiale della cultura consumistica giapponese ». E sul cavalcare il consumismo Haring non ha avuto falsi pudori. L’altra forte suggestione con cui si esce da questa mostra è però la dimensione tragica di Haring. Se l’artista nell’immaginario comune è soprattutto il festoso celebrante dell’amore e della vita, nella sua produzione tutto questo si mescola con un senso onnipresente di morte (le “X” con cui marchia le figure). Come per l’Adrian Leverkühn di Thomas Mann, la creatività in Haring si confronta con la malattia (in entrambi i casi sessuale) e il senso del termine. E se l’Apocalypsis cum figuris è uno dei capolavori di Leverkühn, la dimensione apoca-littica – a cui dedica un saggio in catalogo Demetrio Paparoni – è un tema costante e centrale in Haring. Nell’autoritratto con cui si apre la mostra, l’artista si rappresenta come una sfinge.
Nella mostra troviamo arpie, chimere, gorgoni, prostitute di Babilonia. I suoi colori fluo e sgargianti, non diversamente dai funghi, nascondono spesso una realtà venefica. Notevoli alcuni grandi lavori in cui Haring riprende le suggestioni di Bosch e i Giudizi universali del Trecento italiano. Certo, c’è spesso la denuncia (la violenza, la guerra nucleare, il potere oppressivo delle religioni – sebbene il rapporto con il sacro è ricco di sfumature anche in una richiesta salvifica, come nell’altarpiece presentato in mostra senza esplicitare il titolo, The life of Christ, e che costituisce l’ultima sua opera). L’incubo degli inferni medievali, con i Luciferi bestiali che divorano corpi, acquista una drammatica qualità immanente nella malattia che divora la nuova generazione. Più scatologici che escatologici, questi Giudizi sono un’orgia tragica. La sessualità in Haring è energia vitale e veicolo di morte. Ma la sua rappresentazione è più spesso violenta che gioiosa. La New York edonista si rivela disillusa e disperata. E l’eroina e l’Aids appaiono come flagelli, mandati a trasformare in inferno i paradisi artificiali.
Milano, Palazzo Reale
Keith Haring. About art
Fino al 18 giugno