«In Europa la gente muore durante le guerre: in guerra la morte si porta via milioni di vite, ma è la messe di una sola stagione. Da noi la vita umana non conta un accidente. Con la povertà e con la fame che ci ritroviamo, il confine tra la vita e la morte diventa labile». Parole di Oscar Prudencio, rettore dell’Università San Andrés, La Paz, Bolivia. Con questa visione prospettica – il Sud del mondo che dà chiavi di lettura al Nord, attraverso voci poco note, ma autorevoli di un microcosmo che disegna i contorni del macrocosmo in cui è immerso – arrivano per la prima volta in Italia dieci reportage di Ryszard Kapuscinski, scomparso tre anni fa a Varsavia prima di compiere 75 anni.Pubblicato nel ’75 e divenuto subito un successo,
Cristo con il fucile in spalla (192 pagine, 15 euro, in uscita per i tipi di Feltrinelli) dà voce a giovani rivoluzionari che a cavallo tra gli anni 60 e 70 hanno tentato di opporsi con la lotta armata a conclamate dittature. Il titolo del volume richiama la figura del prete colombiano Camilo Torres Restrepo, precursore della teologia della liberazione e docente di sociologia, che a 35 anni – dopo 10 di sacerdozio – scelse di imbracciare le armi per entrare nell’Esercito di liberazione nazionale, sposando la causa degli indios; sarà ucciso due anni dopo, durante un attacco dei guerriglieri contro l’esercito regolare. Kapuscinski non giustifica l’uso della violenza in risposta alla strategia del terrore messa in atto da chi ha in mano il potere, ma denuncia l’oppressione, a tutte le latitudini, e cerca di far emergere le motivazioni dei ribelli, come la passione per la dignità e le radici etiche. In Salvador, ad esempio, Victoriano Gómez «organizzava imboscate contro le pattuglie della Guardia Rural, un esercito privato al servizio dei latifondisti, reclutato tra i peggiori criminali. Il terrore di tutti i villaggi». La polizia lo cattura una notte in cui era andato a trovare la madre; la sua esecuzione «esemplare» venne trasmessa in tv, «perché l’intera nazione vedesse. Vedesse e riflettesse». Toccante il passaggio di una lettera scritta dal boliviano comandante di reparto Nestor Paz alla moglie María Cecilia: «Nessuna morte è inutile, se è stata preceduta da una vita dedita agli altri, una vita in cui abbiamo cercato significati e valori». Positivo il giudizio su Che Guevara e Salvador Allende: «Sia una morte che l’altra sono una dichiarazione, una sfida. Esprimono il desiderio di testimoniare pubblicamente la giustezza delle proprie convinzioni e la disponibilità, al di là di ogni esitazione, a pagare per essa il prezzo più alto». Intenso, d’altro canto, il racconto del sequestro e dell’omicidio «come strumento di potere» da parte dei ribelli del conte Karl von Spreti, ambasciatore tedesco in Guatemala. Non si tratta di un’apologia della rivoluzione, verso la quale si avverte comunque un’empatia. Anzitutto l’autore riferisce di efferati omicidi di massa caduti nell’oblio. Non ricordarli significa per lui rendere vano il sacrificio di tanti innocenti: «Nel 1968, in Guatemala sono cadute vittime del fascismo oltre tremila persone. Una parte è morta sotto tortura nei campi di concentramento (...). Le altre sono state assassinate nelle loro case, nelle vie, nei fossi lungo le strade». E comincia un elenco di contadini, ingegneri, sindacalisti, poeti, operai chiamati per nome e cognome, quando è stato possibile identificarli. Fucilazioni, massacri, desaparecidos e fedayin in una storia e in una geografia raccontata dal basso, che non perde uno sguardo d’insieme su chi ha mosso cinicamente le pedine. Di fronte alle violenze reiterate in Medio Oriente, in Mozambico e in alcuni Paesi latinoamericani, si dovrebbero avere sussulti di compassione e d’indignazione. Invece il giornalista registra l’egoismo planetario che avanza: «Ci sono troppe persone desiderose di mangiare, di andare all’università, di prendere il potere, di vivere. L’uomo ha paura dell’altro uomo e non tanto per il timore che questi lo uccida ma, in modo sempre più diffuso e frequente, che questi prenda il suo posto. La concentrata paura della morte è stata sostituita dalla diluita paura di una mancanza di spazio». Kapuscinski non si scaglia soltanto contro l’individualismo imperante. È il silenzio colpevole a essere messo sotto accusa quale «strumento politico, esattamente come il fragore delle armi o i discorsi di un comizio. Uno strumento di cui hanno bisogno i tiranni e gli occupanti che vigilano», mentre «la propaganda locale veglia affinché alle orecchie degli abitanti dell’Europa, dell’Africa e della stessa America Latina non giunga il minimo grido». Il reporter polacco vuole far emergere lamenti, proteste, verità scomode. E queste narrazioni di viaggio, documentate nei minimi dettagli senza mai essere leziose, intendono svegliare le coscienze distratte: «Oggi si parla molto della lotta contro il rumore, mentre è molto più importante combattere il silenzio. Nella lotta al rumore è in gioco la pace dei nervi, nella lotta al silenzio la vita umana».