Diceva Winston Churchill che i Balcani producono più storia di quanta ne possono digerire; di sicuro continuano oggi a produrre, pur divisi e frantumati, curiosità e contraddizioni. La prima notizia è che la Jugoslavia non era ancora estinta del tutto, ma ha continuato a morire a pezzi, come in un incubo. Infatti il dominio «.yu», quello che da il riferimento ad una nazione su internet, è morto definitivamente poche settimane fa, precisamente il 30 marzo a mezzogiorno. Il Registro nazionale serbo l’ha chiuso dopo che era stato tenuto in vita da alcuni docenti della facoltà di ingegneria dell’Università di Belgrado. Addirittura il Museo belgradese di storia jugoslava ha deciso di segnare la fine digitale della Jugoslavia con una mostra: «l’idea è di celebrare il giorno in cui la Jugoslavia come Stato sparirà letteralmente. Prima scomparve dalle carte geografiche, adesso scompare dallo spazio virtuale», dice Dobrica Veselinovic, autore dell’evento (che, come chicca curiosa, presenta anche il primo calcolatore fatto cinquant’anni fa in Jugoslavia).La Jugoslavia, com’è noto, decedette per tappe e sussulti: agonizzò nel lungo dopo Tito, iniziato esattamente trenta anni fa, si disintegrò in modo violento nel 1991, poi scomparve formalmente nel 2003 quando Serbia e Montenegro crearono una effimera Unione ed ora è morta simbolicamente anche online.Eppure, come l’araba fenice, l’idea di Jugoslavia in vari modi oggi si ripresenta. Spesso romanticamente, come fecero gli Illiristi croati che ai primi dell’Ottocento volevano raggruppare gli Slavi meridionali. Ma anche nostalgicamente, come reazione a tempi di divisioni mentali e territoriali che non vogliono sparire. È il fenomeno della «jugonostalgia», che rimpiange – soprattutto in Bosnia ed in Macedonia – un passato comune tanto disprezzato dai nazionalismi negli anni Novanta ma oggi rivalutato da molti. Segno che la «confisca della memoria», come la chiama la scrittrice Dubravka Ugresic, non è del tutto riuscita ai nazionalismi. Così questo passato comune ritorna, fa capolino sul presente. A Belgrado si scopre oggi che ben 81 mila cittadini si dichiarano ancora jugoslavi, costituendo così la terza minoranza nazionale e scontrandosi con il ministro dei Diritti delle persone e delle minoranze che invece non vuole riconoscerla. E a Zagabria a marzo è stato fondato il movimento «Alleanza Jugoslava» (Savez Jugoslovena) che mira a recuperare una identità comune come unico antidoto ai nazionalismi balcanici ed alla tristezza del presente. C’è anche chi teorizza una «Jugosfera» (il neologismo è dell’
Economist come illuminato tentativo di lanciare nuove forme di cooperazione regionale superando le sbornie di violenza degli anni Novanta (ancora oggi, sedicimila persone scomparse sono cercate con dolore da un milione di familiari).Eppure la post-Jugoslavia fatica a concretizzarsi, a darsi un’anima. La conferenza fatta in marzo a Brdo, in Slovenia, che avrebbe dovuto mettere insieme tutti i leader degli Stati ex jugoslavi più l’Albania (dopo quasi vent’anni di guerre!), è fallita perché la Serbia ha rifiutato la presenza del Kosovo quale Stato indipendente. La Bosnia, più ancora del Kosovo, rimane il buco nero dei Balcani: Stato assurdamente uno e bino, è tenuto in vita artificialmente dall’impegno internazionale. Scandali, burocrazie, corruzione e crisi economica corrodono poi la vita di tanti Stati balcanici ponendoli in una situazione di infinita transizione. Ma verso dove? Verso l’Europa, si dice comunemente. Ma nemmeno questo obiettivo è così scontato: per Bruxelles oggi i Balcani rimandano alla crisi finanziaria eurogreca e ciò basta ed avanza. E’ vero che l’Europa farà una conferenza "ecumenica" sui Balcani il due giugno a Sarajevo. Ma già si sa che non ci sarà alcun nuovo impegno europeo per l’area, se non – forse – l’abolizione dei visti per Bosnia ed Albania. Insomma se anche l’Europa rischia di essere un miraggio lontano (o una delusione vicina), la «jugonostalgia» invece permette di sognare: è confortante, non costa nulla e resuscita i sentimenti di un passato che non passa.