lunedì 13 gennaio 2014
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I Bronzi di Riace, ricollocati nella loro prima sede, dopo la scoperta fortuita del 1972 in fondo al mare, possono resistere a una scossa di sesto grado Richter. Cadrebbe tutta Reggio – è il commento scaramantico – ma loro resterebbero in piedi. Fra poco saranno ultimati anche i lavori del Museo Archeologico di Reggio Calabria dove i bronzi del V secolo avanti Cristo sono i protagonisti. Nei dieci giorni dell’apertura straordinaria a dicembre i Bronzi sono stati visti da 17 mila persone. «Si tratta – dice il presidente della Regione, Giuseppe Scopelliti – di numeri importanti, testimonianza di un prezioso lavoro sinergico che ha prodotto effetti». Ed è raggiante la soprintendente, Simonetta Bonomi: «Quello già ottenuto in questo periodo – dice – è un primo risultato importante e significativo che lascia ben sperare per il futuro». Per giugno tutto il Museo potrà essere visitato. Si punta anche sulla sosta delle navi da crociera nel porto reggino che per la città, grazie ai Bronzi, sarebbero una fonte preziosa di ricchezza.Mimmo Jodice, dal rione Sanità di Napoli, con la macchina fotografica, ha presto cominciato a girare il mondo che, pure, presto l’ha celebrato. Sulla soglia degli ottant’anni, Mimmo Jodice, è tra i più importanti fotografi sulla scena internazionale. Davanti al suo obiettivo sempre il bello che è anche nelle piccole cose, quelle che altri vedrebbero insignificanti. Impossibile elencare tutte le sue mostre e le sue pubblicazioni, e se pure fosse possibile Jodice arrossirebbe nella sua modestia. A Reggio Calabria è stato chiamato per fotografare i Bronzi di Riace, un incontro che Jodice ha da tempo desiderato.Maestro, cosa ha provato, da uomo che ama il bello e da fotografo, davanti ai Bronzi?«Mi interesso di arte classica. Ho visitato i musei più importanti del mondo, compreso quello straordinario di Napoli, però un’immagine che ruota nella mia mente dei Bronzi mi ha sempre spinto a vederli dal vero. Finalmente è capitato. Con un’emozione forte. Voglio vederli in silenzio, stare solo con loro e cominciare a fotografarli innanzitutto con la mente, immaginando una certa luce, una certa angolazione dell’inquadratura. Vedendoli ho cominciato a pensare all’immagine migliore possibile».Fotografare è sempre un affrontare le cose. Come affronterà i Bronzi?«Sì è la stessa cosa. Cercherò solo di trovare nel mirino quell’immagine dei due giovani atleti che ho già nella mente. Penso molto ai dettagli, a delle inquadrature che possano restituire la loro forza espressiva e questa mia dimensione straordinaria che provo guardandoli con gli occhi». Lei ha fotografato già tutta l’opera di Michelangelo e di Canova, cosa l’affascina di una statua?«È che amo la scultura. Se tornassi indietro e potessi ricominciare da capo la mia storia farei lo scultore. La scultura è una cosa che mi prende intensamente».Forse perché la scultura è ferma, come è ferma la fotografia anche quando rappresenta un movimento…«Non saprei, ma il fatto di plasmare la forma è un atto straordinario. Mi affascina Michelangelo quando diceva che la scultura è già tutta nel blocco di marmo, basta togliere il superfluo. È straordinario fare uscire da questa massa, poco alla volta, un’ immagine».Si fotografa una statua o un altro oggetto per documentarlo o testimoniarlo. Nel suo caso, la fotografia di un’opera è in se stessa un’opera autonoma. Com’è possibile mutuare questi due linguaggi così diversi?«Tutto il mio lavoro non è mai stato di documentazione, qualsiasi siano stati i generi. Non vado in giro per vedere cose da documentare. Lavoro su dei progetti, cioè su dei temi, su argomenti che possono essere il mare o il mondo antico. Ma non documento il mare. Cerco di ricavare dalla linea dell’orizzonte, l’acqua e il cielo, una suggestione forte. Allora non è più paesaggio».E con la scultura?«Non cerco di far vedere al meglio la perfezione della scultura. Chi osserva una mia fotografia di quella scultura non vede un pezzo di marmo o di bronzo, ma un momento vero di vita, un’espressione forte che coincide con i sentimenti, nel bene e nel male. Nella violenza o nella suggestione struggente delle qualità migliori possibili. La mia non è solo la bella fotografia che rappresenta al meglio la forma».La grande diffusione della fotografia, grazie al digitale, non pensa che abbia comportato anche la sua banalizzazione?«C’è sempre stata la fotografia del turista, di chi vede e cerca di conservare l’immagine. Il problema con il digitale, per la facilità dell’atto di vedere subito il risultato, ha fatto perdere quella dimensione più di impegno che, attraverso la fotografia, ti porta a rappresentare una tua visione personale. Si punta di più a raccogliere quello che con facilità si trova intorno. Si è persa la dimensione dell’amore per la fotografia».È cambiato il gesto del fotografare?«Esatto. Prima si spendeva del tempo, per cercare l’inquadratura migliore, per costruire l’immagine che sarebbe stata. Oggi basta guarda nel piccolo schermo: tac… tac… tac! Mordi e fuggi. È aumentato il numero dei fotografi. È aumentato il numero delle immagini prodotte, ma la qualità non è migliorata».Lei fotografa in digitale?«Il digitale? Che cos’è? Mi definisco il fotografo della manovella. Infatti, la macchina che utilizzo di più, l’Hasselblad, cos’ha? Ha una manovella!».Quali sono le foto più belle, fatte… a manovella?«Le foto più belle le ho fatte con gli occhi. Le tengo nella mente. Di queste foto non fatte segno l’orario e il luogo per ritornare poi e scattarle. Spesso non torno, ma se torno, trovo pure quella stessa situazione, ma non più quel fascino, quel momento sublime della fotografia che è legato alla tua predisposizione e poi alle condizioni ambientali. Mi piacerebbe trovare un meccanismo di recupero, che tirasse fuori dalla memoria tutte le foto che i miei occhi hanno fatto…».Maestro, questo è fantascienza. Può darsi anche che ci arriveranno, però dovrà rassegnarsi al digitale.«Sì, mi rassegno, ma devono far presto».
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