domenica 15 marzo 2015
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«Gerusalemme dovrebbe essere la città simbolo dell’unione, invece è diventata la città dei muri, delle diversità che non si parlano. Eppure il pregiudizio si può superare, si possono costruire ponti. Si può sperare in un dialogo». È il messaggio che circola al Café Jerusalem, lo spettacolo di Paola Caridi, tratto dal suo libro Gerusalemme senza Dio (edito da Feltrinelli) e prodotto dal Teatro Stabile di Genova, che andrà in scena al Teatro Duse di Genova dal 18 al 22 marzo, con Pino Petruzzelli (che cura anche la regia) e Carla Peirolero e le musiche dal vivo dei Radiodervish, il gruppo di world music formatosi a Bari nel 1997 composto da Nabil Salameh (canto, buzuki e percussioni), Michele Lobaccaro (chitarra, basso) e Alessandro Pipino (tastiere, fisarmonica). È proprio Nabil Salameh a raccontarci la Gerusalemme “invisibile”, una ferita sempre aperta per un cittadino italiano di origini palestinesi, figlio di una famiglia di rifugiati che ha trovato accoglienza in Libano nell’esodo del 1948. Da 20 anni vive nel nostro Paese. Qui ha costruito il suo futuro, ha sviluppato la sua arte, ha conosciuto la possibilità dell’incontro. Nabil e i Radiodervish cantano la pace, l’amore, la forza del dialogo. Un mondo senza bandiere e senza steccati. Come nelle esibizioni con l’israeliana Noa, nei duetti con Jovanotti alla ricerca della Stella Cometa o nei viaggi fra le Sacre sinfonie del tempo con Franco Battiato («Un faro, un maestro straordinario») nel progetto Diwan sulla cultura arabo-siciliana. Café Jerusalem  (nato da un’idea sviluppata al Suq Festival) è l’ultima tappa di questo viaggio nella contaminazione, di persone e di linguaggi: prosa, musica, danza, teatro d’ombre. Fra i tavolini del locale, nella città esposta alla violenza e all’odio, si svolge la storia d’amore della palestinese Nura (il suo nome, in arabo, significa “luce”) per l’ebreo Moshe. Un amore che cova nascosto e silenzioso, ma che illumina la città. Una passione che per lei è vita, anche se deve inesorabilmente fare i conti con la realtà. «Il progetto teatrale – spiega Paola Caridi – nasce con i Radiodervish, che assieme a me più volte hanno vissuto e ascoltato la città, nei loro frequenti viaggi a Gerusalemme. Nura ricorda. Ricorda una storia sopita, prima di metterla in valigia e di lasciare una Gerusalemme, la sua, che non c’è più. Ricorda le parole non dette, l’afasia che stringe la città e i suoi abitanti in un cappio. Le parole che non furono dette, le parole per conoscersi, sono quelle tra Nura e Moshe, ma anche tra il giovane palestinese Musa e la ragazza-soldato israeliana che gli chiede i documenti. In un passaggio di testimone tra le generazioni che tramanda la sofferenza, e rinvia a data da destinarsi la soluzione del conflitto. Perché poco è stato detto, e dunque poco si è chiesto al proprio nemico, per sapere chi è, quali sono i suoi sogni, cosa rivendica». Così, sul palco, Nabil suona la speranza. In un racconto che va «oltre il personale». «Lì ci sono le mie radici – racconta –, c’è l’esilio dei miei genitori e di noi figli espropriati e derubati della nostra storia. Cercare di riappropriarsi dell’identità, anche senza terra, è un impegno molto gravoso, ma credo che l’identità non sia un concetto statico. È un divenire. È la raccolta di un vissuto. Per questo la descrizione della causa palestinese non obbedisce più alla mia discendenza o all’appartenenza di sangue, ma a un’appartenenza morale, etica. È un principio di umanità». Che trova la massima espressione nel titolo dell’album pubblicato dai Radiodervish nel 2013, Human, e con il brano finale, Stay Human. «Restare umano, sì è questo il motto – continua Nabil –. Rivolto ai palestinesi stessi di Gaza, ma anche all’occupazione israeliana: non dimenticare che esiste l’uomo. In loro e nell’altro. Tornare a essere umani è la sfida di tutti. Mettere al centro della nostra esistenza. La vita. Il diritto alla vita». Il percorso teatrale di Café Jerusalem diventerà anche un Cd «acustico» di «suoni vivi», in uscita il 20 maggio (dal vivo il 21 maggio al Blue note di Milano e il 23 all’Auditorium di Roma): «Entrando nella dimensione del caffè mediorientale – spiega Salameh – ci si rivela il carattere multiculturale di una città dove tradizione e modernità si confrontano e dove, grazie alla presenza dei racconti degli Hakawati, i cantastorie che animavano i caffè di Gerusalemme, si entra facilmente in dimensioni fiabesche e surreali parallele. L’eredità culturale palestinese custodita nei semplici oggetti, negli eventi e nella memoria dei personaggi viene mostrata a partire dalla scoperta dell’amore verso il diverso e dall’amara consapevolezza delle difficoltà implicite, in quanto inevitabili trasformazioni hanno mutato il percorso storico di quella terra. Gerusalemme, ancora oggi, continua a essere al centro di un conflitto singolare, ricco di simboli che condizionano la storia e la coscienza del mondo». L’ultima nota è di speranza. «Non è facile trovare una soluzione “politica” definitiva. Ci sono tante stratificazioni, racconti contrastati, vissuti diversi… Ma si può provare a parlarsi. Nel contatto di persone e persone, sulle strade della fiducia e dell’amore. Sapendo che chi ci sta di fronte è sincero. E vuole la stessa cosa: la pace».
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